Due acuti colpi di martelletto. “La Camera approva”. E gli ultimi deputati, più che sufficienti a garantire il numero legale, alla spicciolata lasciano il loro scranno dopo avere raccolto i pochi fogli di appunti. È il 5 febbraio del 1992. Dopo due legislature il Parlamento è riuscito ad approvare la “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.”
Il titolo è ambizioso e, per certi versi, altisonante, ma gli analisti più critici mettono subito in luce quanto poco di imperativo la nuova norma stabilisca: una serie di accattivanti, anche se talvolta un po’ generiche, enunciazioni, una sfilza di indicazioni agli enti locali che, stando alla legge, “possono” attivare nuovi e più efficaci servizi, una raccolta di disposizioni già esistenti. I più perfidi già chiosano: “Altro che quadro! Qui a malapena c’è la cornice!”
Un timido slancio di decisione in più lo si ritrova negli articoli che riguardano la scuola, ma vedremo negli anni successivi quanta fatica e quanta elaborazione ci vorrà per perseguire quelle intenzioni. E assisteremo anche ad un tira e molla snervante sui fondi da destinare all’integrazione scolastica e all’azione di sostegno. Dieci anni dopo abbiamo ancora scuole, e non poche, dove i disabili non possono entrare, o istituti dove i disabili sono confinanti a pian terreno lontani dai laboratori, dalle palestre o, più banalmente, dal distributore di cioccolata. Dobbiamo ancora capire come agire quando i Comuni, o chi per essi, non garantiscono il trasporto scolastico, oppure con chi prendersela quando allo studente con disabilità non viene garantita l’assistenza alla persona e al bagno lo accompagna la madre, il padre o qualche volenteroso. Per la famiglia si aggiunge un altro problema: uno in più che gli fa vivere la scuola come un ambiente ostile, nemico, insensibile.
Dieci anni hanno messo a nudo tutto ciò che di appannata vacuità vi è in questa norma.
Prendiamo la stessa definizione di handicap. È corretta e in linea con le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: l’accertamento dell’handicap non parte da una valutazione medica, ma considera gli aspetti sociali che una menomazione produce. Doveva essere una rivoluzione culturale per un sistema che valutava l’invalidità in percentuale utilizzando specifiche tabelle. Qual è il risultato? In Italia, a dieci anni di distanza, sono necessari comunque due distinti e separati momenti di accertamento: uno per l’invalidità ed l’altro per handicap. Il che significa che il disabile deve essere sottoposto a due diverse visite e che le Commissioni prendono due gettoni di presenza. Non parliamo poi delle revisioni periodiche, richieste troppo spesso anche per le patologie più consolidate. Il disabile è continuamente sotto l’occhiuta vigilanza del Servizio Sanitario Nazionale, delle Prefetture, dell’INPS, dei Servizi Sociali. Si conosce di ognuno vita, morte, miracoli, deformità, vizi e virtù. Ma, vista la qualità media dei servizi sociali, dobbiamo ritenere che se ne ignorino i bisogni. Allarga le braccia l’amministratore locale: “i fondi dalla regione sono quelli che sono …”. Scuote il capo l’assessore regionale: “Abbiamo fatto molto, ma i fondi sono quelli che sono …”.
Torniamo alla nostra legge quadro. Un articolo, il 33, aveva attirato subito la golosa attenzione di disabili e familiari: è possibile richiedere permessi lavorativi nel caso l’handicap sia grave. Da un nostro calcolo di minima, dal ’92 in poi vi sono state almeno 30 fra norme, circolari e sentenze che hanno ridefinito, precisato, modificato le indicazioni originarie, creando un grande disorientamento fra i potenziali interessati e imbarazzanti difficoltà applicative.
Non stupiamoci: ci sono nella legge 104 aspetti di ancora più improbabile applicazione. Vi si diceva, ad esempio, che entro sei mesi dalla data di entrata della norma, le regioni avrebbero dovuto elaborare, nell’ambito dei piani regionali di trasporto e dei piani di adeguamento delle infrastrutture urbane, piani di mobilità delle persone handicappate. A dieci anni di distanza solo la Regione Friuli Venezia Giulia ha elaborato qualcosa del genere.
Altri scorci “risibili”: “entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro dei trasporti provvede alla omologazione di almeno un prototipo di autobus urbano ed extraurbano, di taxi, di vagone ferroviario, conformemente alle finalità della presente legge.”
Solo nel 1998 il Ministero dei Trasporti sconsolatamente ammetteva che quella disposizione “è inapplicabile in quanto (…) sono solo i costruttori a poter presentare la domanda di omologazione, non potendo questa Amministrazione imporre omologazioni a detti costruttori.”
Delle due l’una: o quando la norma è stata approvata qualcuno dormiva, oppure è il frutto, come spesso accade, di uno sterile populismo, quello stesso atteggiamento alla base di altisonanti convention e megaprogetti (ben finanziati, quelli) che abbiamo dovuto sopportare negli ultimissimi anni.
Sembra che questi eventi costituiscano una svolta epocale ma, a ben vedere, esauriscono la loro macilenta eco lontano dal clangore dei dibattiti politici “importanti” per il Paese. I disabili rimangono comunque una nicchia, un’anomala “incrostazione” sociale, sono “gli ultimi, da aiutare a crescere”. I loro problemi non sono mai centrali nelle riunioni di gabinetto, nei confronti con le parti sociali (leggi: sindacati), nella suddivisione dei fondi. E questo con buona pace di un certo manierato buonismo che, come un’otaria ingenua, plaude al progresso sociale ogniqualvolta un personaggio importante pronuncia flebilmente la parola “handicap”.
Ma non disperdiamoci e torniamo al genetliaco della 104. Quando le disposizioni non sono contraddittorie, sono applicabili, sono finanziabili e sarebbero chiarissime, ecco che – per un motivo o per l’altro – vengono bellamente ignorate. Ci siamo chiesti, e abbiamo riproposto inutilmente la domanda a chi di dovere, che fine abbiano fatto i finanziamenti alle Ferrovie dello Stato. La 104 ci dice che “una quota non inferiore all’1 per cento dell’ammontare dei mutui autorizzati a favore dell’Ente Ferrovie dello Stato è destinata agli interventi per l’eliminazione delle barriere architettoniche nelle strutture edilizie e nel materiale rotabile appartenenti all’Ente medesimo”. Conoscete l’ammontare dei mutui a favore delle FS in questi ultimi dieci anni? L’1% è una cifra di tutto rispetto in grado di supportare progetti ben superiori a quelli, peraltro non disprezzabili, fin qui realizzati.
Quando avanziamo questo dubbio ci viene risposto, con cortese ed affettato stile da ufficio relazioni con il pubblico, che le FS sono impegnate da anni nella ristrutturazione delle stazioni e nell’accessibilità dei mezzi. Vorremmo però vedere il piano di accantonamento, di spesa e di intervento.
Ma chi vigila sull’applicazione della 104? Forse qualche magistrato disponibile (non d’assalto, perché operare con i disabili non rende poi molto).
La 104 impone che le nuove opere non devono limitare l’accessibilità alle persone con disabilità. Eppure dal ’92 in poi continuano ad essere realizzate opere, pubbliche e private, off limit per chi ha problemi di mobilità. Un bell’esempio ci arriva dalla più bella città del mondo, la meta di milioni di turisti, il concentrato più alto di opere d’arte: Venezia.
Ogni secolo ha lasciato la sua traccia. Dal romanico al barocco, dal bizantino al liberty, tutti gli stili vi sono gioiosamente rappresentati. Anche il XXI secolo deve lasciare, ad imperitura memoria, le sue vestigia che assumeranno i tratti luminescenti di un ultramoderno ponte in vetro e pietra d’Istria. La firma è di uno dei maggiori architetti viventi: Santiago Calatrava.
Il progetto, utilissimo peraltro poiché ricongiunge la stazione ferroviaria al terminal degli autobus, è stato finalmente autorizzato dalla Commissione di salvaguardia. Attenzione, però; non è previsto l’impiego di servoscala perché danneggerebbero l’estetica del capolavoro.
La decisione, al di là di tutte le riflessioni di opportunità o meno, simboleggia, in modo esemplare, quest’ultimo decennio: prima viene l’apparenza, l’immagine, l’estetica poi le esigenze dei cittadini più deboli. Se simbolo deve essere, sia il ponte non accessibile.
Un cosa è certa: noi all’inaugurazione ci saremo. Siete tutti invitati. (Carlo Giacobini)