Una l’ha detta giusta il Bossi. Se non avete già voltato pagina, vi diciamo cosa. Il Senatore, in questi giorni, ha borbottato ai giornalisti: “I lavoratori non ci hanno capito nulla dello scontro sull’articolo 18.” Sembra, da questa affermazione ripresa anche dal Ministro Maroni, che la colpa di questo disorientamento non sia imputabile al Governo in carica. Di chi sia la responsabilità poco importa ai fini della nostra volutamente disordinata riflessione.
Lo Statuto dei Lavoratori rappresenta uno di quei feticci giuridici, come la norma sulla tutela della maternità, la Costituzione, le norme sulla privacy che, in questo Paese, sono intangibili e dogmatici, anche se alla conta finale, sono ben lontani dall’essere risolutivi dei problemi delicatissimi che vorrebbero disciplinare.
Lo Statuto dei Lavoratori risale al 1970. Fu il risultato di aspre battaglie sindacali e politiche significative per il progresso sociale e segnò la modificazione dei rapporti fra aziende e lavoratori. Tanto importante da rappresentare un’icona venerata da chiunque si occupi di contrattazioni sindacali e abbia a cuore, più o meno sinceramente, il destino di masse altrimenti indifese di lavoratori.
L’articolo 18 fissa un principio. Nel caso il giudice decida che un licenziamento è avvenuto senza giusta causa, il lavoratore deve essere reintegrato al suo posto di lavoro. Il Governo conta su una delega che gli permetterebbe di abrogare questa disposizione. Anche se questa idea è stata ispirata da Confindustria, ascoltata suggeritrice del Governo, non significa che da un imprecisato domani qualsiasi lavoratore potrà essere licenziato anche senza giusta causa: resta fermo infatti l’obbligo di risarcimento.
Questo è quanto. Il Governo ne vuole l’abrogazione, le forze sindacali – più o meno unite, ma puntellate dall’Opposizione – sono visceralmente contrarie: di qui il braccio di ferro.
Vi starete chiedendo: ai lavoratori disabili che ne viene? Non è, ovviamente, un problema di disabilità. L’esperienza ci ha insegnato che quando ci sono situazioni di crisi, le prime a saltare sono le garanzie per le fasce deboli, mentre quando ci sono tendenze positive nel mercato del lavoro, ne trae beneficio anche chi di solito è ai margini. Quindi se ha ragione il Governo (leggi “Confindustria”), la maggiore “flessibilità” del mercato garantirà una maggiore occupazione. Se invece è vero quello che sostengono i Sindacati (leggi “Opposizione”), l’abrogazione porterà allo sgretolamento delle garanzie per i lavoratori.
Forse è un dibattito più grande di noi e ci viene da pensarlo perché, ancora una volta, ne siamo rimasti esclusi. Quando il Governo ascolta le “Parti Sociali” significa che incontra Confindustria, Confartigianato e i Sindacati, e in tre balletti ha concluso il giro.
Parliamo un po’ da soli, allora. Dal nostro punto di vista lo Statuto dei Lavoratori ha un peccato originale evidente già nella sua stessa carta di identità: si occupa dei lavoratori.
Non si occupa di chi, dal mercato del lavoro, è estromesso per le sue condizioni sociali o sanitarie o di invalidità. È la stessa lacuna propria del movimento sindacale nostrano degli ultimi decenni: occuparsi molto di chi paga la quota associativa e poco o per nulla di chi è inoccupato, disabile, disoccupato di lungo periodo. Questo atteggiamento è, per dirne una, all’origine della nascita dei movimenti spontanei dei “senza lavoro” e sarà la causa, lo scommettiamo, di un progressivo allontanamento delle associazioni dei disabili dalle sigle sindacali.
Se poi leggiamo con attenzione lo Statuto troviamo un altro punto debole che ci interessa, quello relativo agli atti discriminatori (articolo 15). Chi l’ha elaborato ha sancito che non è possibile subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale oppure cessi di farne parte. Ancora: non è possibile licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli pregiudizio solo perché è un attivo sindacalista oppure perché ha partecipato ad uno sciopero. Nessuna discriminazione inoltre può essere ammessa per motivi politici o religiosi.
Ma, nei fatti, la discriminazione non si limita certo a queste situazioni da manualistica giuslavorista. Lo sappiamo bene e per questo avremmo voluto che, visto che si vìola l’intangibilità dello Statuto, si cogliesse l’opportunità per rivedere le misure antidiscriminatorie, ponendo affianco ai motivi politici e religiosi, anche quelli di sesso, razza o disabilità.
In buona sintesi i disabili fanno una fatica dannata a trovare lavoro e quando lo trovano troppo spesso sono destinati ad essere assunti con gli inquadramenti più bassi (e fin qui nulla di strano) e a mantenerli per tutta la loro carriera lavorativa. Perché? Perché sono stati assunti per carità o per rispettare una norma “vessatoria”. Quando poi richiedono un permesso lavorativo o per cura la stigmatizzazione nei loro confronti diventa parossistica. Con questo non vogliamo certo sostenere che tutti i disabili siano indefessi e solerti lavoratori, ma è sicuramente vero che chi vale qualcosa deve dimostrare il doppio per avere la metà.
Nel ‘98 una nuova norma per il diritto al lavoro dei disabili è stata salutata con soddisfazione da quasi tutti gli addetti ai lavori e con qualche atteso mugugno da parte delle aziende.
A quattro anni di distanza quella norma segna il passo e gli spazi lavorativi che dovevano aprirsi si sono volatilizzati.
A questo punto di solito se ne esce il solito Balanzone con la sua ricetta che immancabilmente è: formazione! I disabili devono essere formati per essere integrati efficacemente nel tessuto produttivo. La formazione per i disabili è un appetitoso affare: sono piovuti sull’Italia centinaia di miliardi della Comunità per la realizzazione dei corsi più strampalati. Conosciamo disabili che hanno frequentato due, tre, quattro corsi senza mai trovare nemmeno una parvenza di posto di lavoro. Al contrario, si sono sentiti proporre di diventare soci delle più raffazzonate cooperative sociali. Tant’è che attualmente uno dei maggiori problemi di queste organizzazioni votate alla formazione professionale è trovare ancora disabili disponibili a farsi formare. A qualcuno, prima o poi, verrà voglia di indagare…
Il nuovo responsabile del Ministero del Lavoro non sembra essere particolarmente preoccupato della sorte professionale dei disabili, visto che dal suo insediamento non ha emanato alcun provvedimento di rilievo in tal senso. Lo stesso dicastero è stato unito al vecchio Dipartimento Affari Sociali formando una nuova struttura unica: il Ministero del Welfare.
Al Dipartimento Affari Sociali è stato affidato per legge il compito di organizzare una volta ogni tre anni una Conferenza Nazionale per l’Handicap. L’ultima è stata organizzata nel 1999. Più tre fa 2002. (Carlo Giacobini)