Sul finire del ’700 il pensatore inglese Jeremy Bentham vagheggiò un progetto di carcere modello, cui attribuì il non casuale nome di Panopticon.
Bentham ipotizzava la realizzazione di un edificio a pianta semicircolare. Al centro prevedeva la guardiola dei sorveglianti. Le celle dei carcerati erano disposte a raggiera lungo la circonferenza dell’edificio.
Grazie a questa disposizione, le celle, e i carcerati che le occupavano, erano totalmente esposti alla vigilanza dei secondini. Un diabolico sistema di saracinesche e di finestrelle consentiva alle guardie di osservare i carcerati senza che questi se ne accorgessero.
La trovata dell’inglese era proprio questa: ogni prigioniero, non essendo certo di essere inosservato, si sarebbe comportato bene, o meglio, avrebbe rispettato la disciplina imposta dal carcere.
È dalla possibilità di controllare senza che l’osservato possa obiettare che deriva e si conserva il potere di chi detiene questa facoltà.
Il Panopticon, almeno così come l’aveva pensato il Bentham, non è mai stato realizzato, ma forme di vigilanza anche più raffinate sono state pensate e applicate da pensatori moderni meno dotati e lucidi del nostro. Non ci stiamo riferendo al braccialetto elettronico che dovrebbe permettere di vuotare le carceri dai criminali più innocui, né alle impronti digitali per le torme di extracomunitari che assediano le nostre città e rubano i posti di lavoro migliori ai nostri connazionali. No. Stiamo riflettendo su alcune vessatorie, inutili, e costose forme di controllo che vengono attivate nei confronti di cittadini senza particolari colpe.
Proviamo anche noi a spiare idealmente un neonato. Sembra un bambino come molti altri, ma già a due anni gli viene diagnosticata una severa patologia di origine genetica. Assorbito il trauma della comunicazione della diagnosi, non sempre riportata con umana delicatezza, i genitori comprendono che forse è il caso di richiedere l’accertamento dell’invalidità civile. Richiedono la visita e dopo alcuni mesi (quando va bene) il bimbo può essere sottoposto a verifica. Nella sala di attesa trova ragazzi paraplegici, adulti con problemi psichici, anziani con tremori e dall’eloquio incerto. Lo visita una commissione che lo definisce “minore con difficoltà persistenti a svolgere le funzioni proprie dell’età”. Significa, ma questo i genitori lo scopriranno poi, che avrà diritto all’indennità di frequenza, poco più di 400 mila lire al mese, sempre che frequenti l’asilo o la scuola o un centro di riabilitazione. La commissione stabilisce anche che il bambino deve essere rivisto dopo due anni.
Nell’affrontare la quotidianità dell’assistenza i genitori incontrano ovvie difficoltà a conciliarla con il lavoro, ma vengono a sapere che la generosità dello Stato ha previsto per loro ben tre giorni di permesso retribuito. Ma, ahiloro, per ottenere quei permessi è necessario disporre di un’altra certificazione: quella di handicap in situazione di gravità. Già, perché in Italia convivono due modalità di accertamento: una di invalidità (medico legale) e una di handicap (medico sociale). Si torna in commissione, la stessa della prima volta con l’attenta integrazione di un operatore sociale. Va tutto liscio: handicap grave, ovviamente rivedibile fra due anni.
Il bimbo cresce, si presenta puntualmente alle verifiche disposte dalla commissione: a sei anni è già stato visto quattro volte (e ai membri della commissione sono stati corrisposti altrettanti gettoni di presenza).
È ora di andare a scuola. Il nostro bambino potrebbe avere necessità di un insegnante di sostegno oppure di una persona che lo assista. Le certificazioni di cui è in possesso non sono sufficienti; deve rivolgersi ad uno specialista perché questo rediga la cosiddetta “diagnosi funzionale” su cui poi un’équipe elaborerà un “profilo dinamico funzionale”. Su questo verrà costruito il “piano educativo individualizzato”. E il nostro bimbo, dopo essere stato ben ben setacciato, frequenterà felice la scuola dell’obbligo certo che l’intero corpo docente e non docente conoscerà perfettamente i suoi problemi cognitivi e relazionali e saprà affrontare qualsiasi necessità ed emergenza.
Avrà bisogno anche di qualche ausilio il nostro ragazzo (è cresciuto, crescono anche i disabili). Per ottenere una carrozzina dovrà rivolgersi ad un medico prescrittore e attendere che il servizio burocratico e di controllo dell’ASL dia l’assenso.
Al compimento del diciottesimo anno di età – nonostante tutto – il nostro amico deve essere considerato maggiorenne. È fatale: bisogna tornare in commissione di accertamento di invalidità. Si potrebbe avere diritto alla pensione. Anche questa volta l’invalidità viene confermata. Per cinque anni, poiché la commissione reputa che le patologie siano consolidate ma non troppo …
Con la maggiore età si acquisisce anche il diritto di voto, ma il nostro neomaggiorenne ha necessità di essere accompagnato in cabina per poter assolvere all’alto diritto/dovere che la Repubblica gli ha riservato. Un giretto al servizio di medicina legale dell’ASL e gli verrà gratuitamente consegnato un certificato (valido solo per queste votazioni) grazie al quale suo cugino potrà spingere la carrozzina fin dentro la cabina e aiutarlo ad aprire la scheda.
Come tutti i giovani anche quello che stiamo spiando vorrebbe poter guidare un’auto. Sa di potercela fare con qualche adattamento. E poi ha ventuno anni, uno straccetto di fidanzata, alcuni amici e la macchina proprio gli serve. Diversamente dai suoi coetanei, ben più pericolosi, la sua idoneità deve essere accertata da una nuova commissione. Potrebbe infatti essere pericoloso per sé e per gli altri. Non senza difficoltà la commissione lo autorizza a guidare ma, pur essendo la sua patologia ormai consolidata, fra tre anni dovrà presentarsi ad un nuovo controllo.
Non importa! Adesso può comprarsi un’automobile nuova fiammante con tanto di sedili reclinabili. E può anche avere delle agevolazioni fiscali. Gli ostacoli questa volta li pone l’Agenzia delle entrate: nei verbali di invalidità non è annotata in modo inequivocabile la natura motoria della disabilità. Il verbale deve essere integrato e per integrarlo è necessario ripresentarsi a visita.
E adesso che ha l’auto bisogna anche parcheggiarla. Il sindaco gli rilascia l’agognato tagliando arancione solo se presenta un certificato del servizio di medicina legale in cui si precisi che ha gravi difficoltà di deambulazione. Gli altri certificati non sono validi. Lo ottiene e viene a sapere, con sollievo, che per il rinnovo, fra cinque anni, sarà sufficiente presentare un certificato del medico curante che conferma che le sue condizioni non sono mutate. Pagherà solo 70 vecchi sacchi (circa 35 euro).
Anche se la patologia principale è consolidata, può accadere che – cattiveria della sorte – ne sopraggiunga un’altra. Il nostro ha una significativa perdita di udito ed ha necessità di una protesi. Il medico non pone difficoltà e gli prescrive quella più adatta. Gli ostacoli li pone la ASL: nel tuo verbale di invalidità non c’è scritto che hai una disabilità uditiva. “Il tuo certificato deve essere aggiornato: torna in commissione!”
Il nostro amico è ormai in età lavorativa, ma il mercato del lavoro non è un animale facile da aggredire. Gli spiegano che è meglio avere una carta in più da giocare: iscriversi alle liste speciali di collocamento. Per farlo però una commissione ASL deve accertare quali siano le sue capacità residue per poter garantire un oculato e profittevole collocamento mirato. Visto che è per il suo bene e che non può farne a meno, si sottopone a visita e si iscrive alle liste speciali di collocamento grazie alle quali ottiene un ottimo posto di portiere (non in una squadra di calcio).
Passano gli anni e con qualche contributo figurativo riesce ad andare in pensione a 59 anni. Da fare ne ha comunque: deve compilare autocertificazioni in cui dichiara di non essere ricoverato in istituto, deve controllare gli aumenti della pensione e deve periodicamente presentarsi a visita di accertamento. Nell’ultimo accertamento, la commissione – in un eccesso di zelo – verbalizza che non è più invalido. Rabbioso, ma sfiancato, il nostro pensionato rinuncia a qualsiasi ricorso.
Ma sappiamo quanto una moglie possa essere insistente e convincente: dopo un paio d’anni decide di ripresentare la domanda di accertamento. È come tornare bambini, quando gli arriva la lettera di convocazione. Con un cerchietto rosso appunta la data nel calendario di Padre Pio.
Il Padreterno però ha altri programmi per lui. Il giorno prima della visita lo convoca in cielo.
Nello sconforto la moglie rimugina sull’ingiustizia informandosi se abbia ancora diritto a qualche prestazione. La rassicurano che ha diritto alle provvidenze economiche arretrate dal momento della domanda al momento della scomparsa del marito. Bisogna però procedere ad un accertamento. L’accertamento post mortem! (Carlo Giacobini)