Parto da una meditazione semiprivata di Franco Bomprezzi, nostro direttore responsabile. È una riflessione che non potrà essere ridotta nell’affollata categoria delle proposte sensazionalistiche e nemmeno dovrà essere considerata come una di quelle provocazioni che oramai rappresentano un diffuso stratagemma comunicativo. Il suo pensiero esprime un dubbio, un disagio, un certo comprensibile disorientamento. Si chiede se abbia senso celebrare (questo termine è mio) l’Anno europeo del disabile mentre è in corso un conflitto di tale portata politica, economica, umana e mediatica. Rileva Bomprezzi almeno tre questioni. La prima è una riserva etica: esprimere solidarietà a chi muore a causa della guerra è prioritario rispetto a qualsiasi altra iniziativa. A questa è connessa una conseguenza mediatica: è impossibile sfondare nella comunicazione tutta presa, giustamente, dagli eventi bellici e diplomatici. L’ultima perplessità è politica: ma che razza di 2003 si potrà mai realizzare, in un clima del genere? E come potremo concluderlo decentemente in Italia?
Sono i dubbi che condivido, quelli di Franco Bomprezzi, che ventila l’ipotesi di sospendere, almeno in Italia, tutte le manifestazioni legate all’Anno europeo del disabile. Se ne riparlerebbe solo quando taceranno le armi, e quando i nostri temi non dovranno contendersi lo spazio con le vittime della violenza e della sopraffazione.
Sottoscrivo, ma ci aggiungo qualche considerazione forse un po’ più radicale. L’avevamo già scritto su queste colonne: il trucco delle priorità continua a fregare i più deboli. Ogniqualvolta si presenta un’emergenza, nazionale o globale, come la guerra, il terrorismo, la crisi delle borse internazionali o di qualche azienda nazionale, i quotidiani disagi – ma che dico? – i quotidiani drammi delle persone più deboli rotolano giù nella cinica scala delle priorità. “Ma come? Chiedi più assistenza in un momento così drammatico?” “Non hai il senso politico del contesto!”
Ed anche i convegni, i seminari, le mostre che in ogni dove ci si affanna ad organizzare prima che sfugga questa ineffabile cometa dell’Anno del disabile, ottengono (per fortuna, in qualche caso) poco rilievo: c’è la guerra, c’è il terrorismo, c’è l’emergenza profughi.
Qualcuno potrà obiettare: “Perché mai sospendere l’Anno del disabile? Non hanno sospeso neanche il campionato di calcio né il mondiale di automobilismo”. Non è esattamente la stessa cosa.
Ma sotto sotto che l’Anno europeo del disabile ci sia o meno, venga sospeso o abbia il massimo della risonanza, me ne importa assai poco e credo che lo stesso sentimento lo nutra anche la silenziosa maggioranza delle famiglie e dei disabili.
Diciamocelo! Nulla di scandaloso: queste occasioni celebrative – l’anno dell’anziano, la giornata della donna, la settimana della prevenzione dentale – rappresentano una ghiotta occasione per informare, per usare un lasciapassare sulla carta stampata ed in TV. Informazioni che, dai e dai, in qualche modo si sedimentano nell’opinione pubblica. È comunque un risultato, ma ci vuole ben altro che un convegnino, un seminario, una mostra di pittura o una corsa non competitiva, per cambiare, in meglio, l’esistenza delle persone che non possono attendere che la collettività, il Parlamento e le sempre più importanti Giunte regionali metabolizzino un’emergenza invisibile. Ma poi è davvero invisibile?
Ogni anno sono necessari 3 miliardi di ore per assicurare assistenza alle persone con disabilità. Ignoro come sia stato calcolato questo dato e quale sia lo spessore scientifico di quella spaventevole cifra. Ma l’ha riportata il Ministro Maroni nel suo recentissimo Libro bianco e voglio crederci. L’altro elemento che ci segnala è che il 95% di quel tempo proviene da reti di solidarietà familiare. La matematica, che spesso diviene noiosa opinione, ci bisbiglia che rimane solo un 5% assicurato da qualcun altro che non sia la famiglia. Questo significa che lo Stato, le Regioni, i Comuni, le ASL oggi rispondono solo per il 5% alle esigenze delle persone con handicap grave. Se in quella ridicola aliquota sono compresi anche i ricoveri in istituto la situazione è ancora più grave: è la prova provata che le famiglie sono lasciate sole a gestire il proprio disagio. E i disabili senza famiglia, ancora più soli.
I Ministri Maroni e Buttiglione sono, per una volta, concordi nell’enfatizzare la centralità della famiglia nelle politiche sociali nel sostegno al disagio e nel supporto agli anziani e ai disabili.
Centralità della famiglia? Ma quando mai? Centralità significa che la famiglia assume una rilevanza in una consolidata rete di interventi, di servizi, di sostegni. Ma questo è in contraddizione con quanto rilevato dallo stesso Libro bianco: le famiglie si sobbarcano la quasi totalità della prestazione assistenziale. Altro che centralità: unicità, piuttosto!
Ma Maroni e Buttiglione, come aveva fatto chi li ha preceduti, srotolano la loro “nuova” mercanzia, prodotti rilucenti studiati proprio per sostenere le famiglie. E si crea una tale spirale di incalzante fervore che la famiglia finisce perversamente per essere l’unico argomento di riflessione e di elaborazione. Il singolo non esiste più. Scompare anche la spinta della persona disabile ad uscire dalla propria famiglia per costruirsene una di nuova, spariscono le altre istanze (lavoro, mobilità, inclusione scolastica) che poco hanno a che fare con la sacralità della famiglia. Scompare la persona artefice della propria esistenza per lasciare posto ad una nuova famiglia a partecipazione statale.
Da questo ardore, vagamente talebano, ci si aspetterebbe qualcosa di deflagrante, di rivoluzionario, qualcosa che possa permettere alle famiglie con una persona disabile di vivere serenamente senza dover inchiavardare la propria esistenza attorno alle spesso angoscianti e perenni esigenze strettamente materiali del proprio caro, senza dover divenire scudi umani. Ci si attenderebbe l’assistenza domiciliare 24 ore su 24 al posto di una finta ospedalizzazione a domicilio, oppure la nascita e l’espansione dei servizi di aiuto personale, o robusti finanziamenti ai progetti per la vita indipendente, oggi ridotti ad una grottesca finzione per mancanza di contributi, volontà e idee.
Nulla di tutto ciò. Solo ipotesi che, nella più rosea delle previsioni, si concretizzeranno in qualche agevolazione fiscale o tributaria, o in qualche minimo contributo figurativo che permetterà ai genitori dei disabili di andarsene in pensione con un paio di anni di anticipo, in modo che si possano dedicare ancora di più alla propria famiglia (facendo quindi risparmiare ancora in servizi).
Vogliamo essere grezzi e un po’ volgari?
Grezzi: vorremmo che quel 5% di impegno dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, diventasse almeno, per ora, il 20%. Una richiesta, ci pare, molto chiara e netta. Per questa operazione sono necessari fondi adeguati, certi e costanti nel tempo che il Governo, anche questo, non ha nessuna intenzione di stanziare. Anzi: è già un miracolo che il già esiguo Fondo Nazionale per le Politiche Sociali sia sopravvissuto agli infuriati colpi di machete di Tremonti.
Volgari: senza quattrini non si va da nessuna parte e tutte le promesse, le idee, le rassicurazioni altro non sono che chiacchiere inutili buone solo per festeggiare l’Anno europeo del disabile.
Sospendere le celebrazioni dell’Anno europeo del disabile? No. Recitiamone, guerra o pace, il de profundis. (Carlo Giacobini)