Mi scrivono: “Nel 1998 ho istallato un montascale spendendo circa 25 milioni di lire. Applicando scrupolosamente i calcoli previsti dalla Legge 13, mi aspettavo legittimamente di ricevere un contributo di una decina di milioni. Ho quindi presentato regolarmente la domanda e in seguito, dopo aver eseguito i lavori, la relativa fattura. Non ne ho più saputo formalmente nulla. Informalmente ho invece appreso che stanno liquidando (parzialmente) le domande del 1996. Per gli anni successivi non ci sono fondi.”
Non si tratta certo di un caso isolato, anzi. È talmente comune e diffuso da averci abituato all’abuso, un abuso di cui sono colpevoli il Parlamento e il Governo. E di questa colpevolezza non servirebbe nemmeno portare le prove. Ci interessa però capire come un perverso meccanismo non scuota più le coscienze, non faccia notizia, non sia oggetto di contenzioso e sia invece ottuso nella rassegnazione.
Torniamo indietro di quattordici anni. Era il 1989 quando, dopo un paio d’anni di gestazione, venne approvata una norma – la Legge 13, appunto – che prevedeva, fra l’altro, anche la possibilità di ottenere un contributo per l’eliminazione delle barriere presenti nelle abitazioni private. Il Legislatore si era reso conto di un’esigenza vitale: molte persone, anziane o disabili, erano (sono) prigionieri della propria casa, accogliente e adeguata fintantoché non si hanno problemi ma che diventa una gabbia quando l’età o una menomazione sono determinanti. Adattare la propria casa a quelle esigenze può essere molto costoso. Talvolta troppo costoso se oltre che essere disabili o anziani, non si hanno disponibilità economiche sufficienti. Non vorremmo sfregiare il roseo ritratto che qualcuno vuol dipingere della nostra opulenta società, ma dobbiamo rammentare che il benessere economico è ancora un miraggio per molte famiglie.
La Legge 13 consentiva, in teoria, una copertura parziale delle spese sostenute e documentate. Presso il Ministero dei lavori pubblici veniva istituito il Fondo speciale per l’eliminazione e il superamento delle barriere architettoniche negli edifici privati che veniva finanziato con 20 miliardi (di lire, ovviamente) per ciascuno degli anni 1989, 1990 e 1991. Briciole.
Nel corso degli Anni ’90, il Fondo viene reintegrato con un’offensiva cifretta di 500 milioni da distribuire fra un ventina di regioni. Solo nel 1997 tornano finanziamenti un po’ più significativi: 10 miliardi per il 1997 e 20 miliardi per ciascuno degli anni 1998, 1999, 2000, fondi che servono per coprire le domande giacenti in tutta Italia.
Bizzarra e significativa la storia di questo secondo finanziamento. Viene “infilato”, con abile mossa corsara, in una norma che nulla ha a che fare con i disabili. La disposizione interessa la salvaguardia del sottosuolo e di Venezia! Un colpo di mano, quindi. Generoso e abile, ma che dà l’impressione di una “furbata”, non della convinzione di un bisogno reale.
Dopo il 2000 più nulla: il Fondo della Legge 13 non è più finanziato. Buio pesto. In occasione di ciascuna Legge Finanziaria le associazioni ne hanno richiesto con insistenza il rifinanziamento. Inutilmente. 10 milioni di euro sono, nel bilancio dello Stato, una cifra irrisoria ma evidentemente troppo alta per il Parlamento e, prima ancora, per il Ministero dell’Economia.
Le conseguenze sono diverse e, per certi versi, inattese.
La prima conseguenza è che migliaia di cittadini sono già creditori dello Stato, di un soggetto che oltre a non pagare il dovuto si fa beffe del creditore. Provate voi a non versare, con la scusa della mancanza di fondi, le imposte dovute!
La seconda conseguenza è che un diritto – quello a vedersi riconoscere un contributo sancito per legge – viene svuotato della sua portata. Si sa che esiste, ma si sa anche che è inapplicabile. Molti cittadini rinunciano a presentare la domanda di contributi, altri vengono “cortesemente” scoraggiati da assistenti sociali e tecnici comunali. In alcuni casi addirittura le domande non vengono accettate (omissione di atti di ufficio) dagli stessi Comuni che dovrebbero riceverle e trasmetterle alle regioni.
Infine, la terza conseguenza è che alcuni Comuni (pochissimi) e alcune Regioni (poche e in modo sempre più limitato) intervengono economicamente per fronteggiare le lacune lasciate dallo Stato. In alcuni casi l’intervento economico rappresenta una sorta di “anticipo”, in altri si tratta di contributi alternativi alla Legge 13 (es. Veneto, Marche).
Qualcuno tira in ballo il principio di sussidiarietà finendo per affermare che dovrebbero essere Regioni ed Enti locali a farsi carico di questi problemi. Ovviamente è una corbelleria. Il principio di sussidiarietà è un concetto un po’ più “nobile” e che non può essere usato come nuova tecnica di scaricabarile.
La sussidiarietà è una soluzione istituzionale, organizzativa e giuridica di cui dovrebbe ormai essere intrisa la cultura normativa occidentale. Non a caso è un cardine della legislazione comunitaria ed è stata recepita ampiamente in alcune recenti riforme istituzionali italiane (Legge Bassinini, federalismo …).
Il principio è, per spiegarla facile, che lo Stato non dovrebbe assumere decisioni che riguardano direttamente gli Enti locali (Regioni, Province e Comuni) quando questi ultimi sono in grado di farlo autonomamente, affrontando e gestendo i problemi delle loro comunità e prendendosi cura di esse. Fanno eccezione le questioni di rilevanza nazionale o sovranazionale. Grazie alla sussidiarietà le comunità e i cittadini possono controllare attivamente la propria vita sociale, evitando quindi l’applicazione di norme imposte a livello centrale. Chi potrebbe non essere d’accordo con questa ipotesi organizzativa? Nessuno. È condivisibile e matura.
Ma assieme ai poteri lo Stato, e su questo si tace, dovrebbe trasferire anche fondi adeguati per gestire le diverse attività. Per la Legge 13 non sono state trasferite né le competenze né i fondi. Ecco perché parlare di sussidiarietà è una fesseria.
Purtroppo – ne abbiamo continue riprove – lo slogan della sussidiarietà è sfruttato anche per altri interventi in campo sociale e non. Risultato: nel progressivo trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni e agli Enti locali si perderanno per strada rivoli di risorse, prima garantite, ora incerte e condizionate alle disponibilità economiche di una periferia che può essere opulenta, ma poco generosa, oppure disponibile ma in difficoltà finanziaria. Il rischio (o è già una realtà?) è che vi siano sempre più diritti geograficamente condizionati.
Ma torniamo alla nostra Legge 13. Qualcuno dirà che – finanziamenti o meno – i paradossi ci sono comunque, ed è vero.
Si pensi solo al fatto che i contributi (quanto mai teorici, a questo punto) possono essere richiesti solo per gli edifici già esistenti. Non riguardano quindi le eventuali spese supplementari che il disabile deve sostenere per adeguare la nuova abitazione.
Non solo: i contributi possono essere richiesti solo per le abitazioni presso cui si abbia stabile dimora. Se la casa appena acquistata non è accessibile e non ci si può entrare, non si possono avanzare richieste.
Ancora: al momento dell’erogazione del contributo (semmai arriva) si deve essere ancora residenti in quell’abitazione. Se ci si è trasferiti se ne perde il diritto. Se si è morti, gli eredi (che magari hanno anche sostenuto direttamente la spesa) non hanno più diritto a nulla. Il compianto familiare abita altrove, dove speriamo questi problemi non ci siano. (Carlo Giacobini)