Perché denunciare il reddito dopo tutto il bene che ti ha fatto? Solo una fulminante battuta di Marcello Marchesi oppure una inconfessabile tentazione che avremmo tutti? Non è piacevole per nessuno farsi contare i soldi in tasca e poi pagarci le tasse, ma dove non arriva il senso civico interviene il timore delle ritorsioni della finanza o la rassegnazione di non poter materialmente evadere le imposte.
Sentimenti contrastanti che non interessano chi è troppo povero per poter essere tassato, o troppo ricco per potersi permettere il lusso di lasciare i propri capitali in Italia. Ma in questo caso non vogliamo soffermarci su chi è troppo povero, né su chi è troppo ricco.
Parliamo della maggioranza dei cittadini. Non è piacevole per nessuno, dicevamo, farsi contare i soldi in tasca, ma, per una volta all’anno, passi: istruzioni, modelli e bustone, numeri e numerini, CAAF o commercialista, tutti in fila a imprecare. Fortunatamente, prima dei calori estivi la tortura è finita: anche quest’anno abbiamo presentato la nostra denuncia dei redditi e versato il dovuto all’erario.
Una volta l’anno basta e avanza. Basterebbe. Ma non è così. Non per tutti, almeno.
Abbiamo avuto l’occasione, di recente, di approfondire per l’ennesima volta la questione dei limiti reddituali imposti per poter godere di alcune provvidenze economiche riservate alle persone disabili.
Come sapete, esclusa l’indennità di accompagnamento riservata ai disabili più gravi, le pensioni e gli assegni, di importi astronomici di poco più di 200 euro al mese, sono condizionati dal reddito della persona disabile. Come dire: non devi solo essere disabile, ma devi dimostrarmi anche che sei un morto di fame! Non basta l’invalidità, accertata dopo un iter lungo mesi, fatto di attese, visita (o visite ripetute e ancora ripetute negli anni), ma bisogna anche dimostrare di essere indigenti, cioè avere denaro sufficiente se è domani che si muore.
Ma come si calcola quel limite di reddito? Si è in una zona grigia in cui è difficile orientarsi, ed è proprio nei solchi di queste difficoltà che allignano le interpretazioni più sparagnine per l’erario e meno favorevoli al cittadino.
In origine il Legislatore aveva previsto che i limiti di reddito da considerare fossero quelli “calcolati agli effetti dell’IRPEF”, cioè il reddito imponibile, quello sul quale si calcolano le tasse da pagare. La lettura sembra abbastanza ovvia, tanto da essere confermata dal Consiglio di Stato nel 1990. Il principio generale – che vale per tutti i contribuenti – è che le imposte si calcolino sul reddito rimasto effettivamente a disposizione del contribuente.
Questo il principio… Ma cosa accade in sede applicativa? L’INPS, spalleggiata dalla Ragioneria dello Stato, non considera il reddito imponibile, ma – al contrario – il reddito complessivo.
Il reddito complessivo è la somma di tutti i redditi da terreni, da fabbricati, dalla prima casa, da lavoro e assimilati, da impresa, esclusi quindi solo i redditi esenti. È il reddito totale su cui solo successivamente si calcola il reddito imponibile deducendo il reddito della prima casa, gli oneri deducibili (ad esempio le spese di assistenza per l’handicap) e le deduzioni per la progressività dell’imposta, cioè quelle pensate dal Legislatore per proporzionare la tassazione secondo i redditi più bassi.
Avete letto bene: mentre la normativa tributaria riconosce un valore “sociale” alla prima casa e alle spese di assistenza alle persone con handicap, tentando così di riequilibrare pressione e drenaggio fiscale, chi applica le disposizioni, che dovrebbero essere di favore per le persone più deboli, utilizza un metro più lungo di cento centimetri.
Grottesco paradosso: chi accerta l’invalidità crede alla metà di quello che gli si dice, chi verifica il reddito crede esattamente il doppio. È così che ogni giorno si concretizza un risparmio palpabile per lo Stato, senza che gli interessati nemmeno si rendano conto di essere, loro malgrado, benefattori dello “stato sociale” che ha tanto bisogno di nuove risorse. Per poterle tagliare. (Carlo Giacobini)