Non è così facile per un amministratore pubblico, un politico o un funzionario parlare ad un pubblico di persone disabili o, peggio ancora, di loro familiari. Qualche consiglio, allora. Nel nostro piccolo mondo ci sono dei termini ricorrenti che suonano bene e garantiscono l’effetto di un eloquio incantatore. Se vi capita di dover presentare una relazione pubblica non mancate di utilizzarle almeno una volta: farete un figurone colpendo e ammansendo l’uditorio più ostile.
Buone prassi. Quando agire per cambiare davvero in meglio l’esistenza di chi sta peggio è troppo costoso e comporta troppe risorse, ma al contempo ci si vuole garantire un’immagine positiva, si promuove un’indagine sui bisogni. Quando anche questo costa troppo, si elaborano delle “buone prassi”, cioè la lista della spesa di come bisognerebbe agire, o di cosa ha combinato qualcun altro, per garantire un buon servizio. Il “progetto”, guarda caso, poi finisce e le “buone prassi” rimangono lettera morta. Quindi adottate il termine senza timore di effetti collaterali inattesi.
Diversamente abile. Usatelo, usatelo, usatelo! È così rassicurante, moderno, positivo, non discriminante! È tanto forte da evidenziare gli aspetti positivi (?) della disabilità. È l’invenzione lessicale che più è stata gradita dagli amministratori e dai politici che, giustamente, ne farciscono i discorsi a profusione. È tanto forte da far dimenticare bisogni, disagi, necessità. Politicamente corretto ed economicamente conveniente.
Collocamento mirato. Un vero gioiello terminologico. Lo abbiamo inventato al momento della travagliata riforma del collocamento obbligatorio, quella che voleva garantire un posto di lavoro alle categorie più deboli. Collocamento mirato significa che ogni persona disabile deve essere collocata al posto che è più consono alle sue difficoltà, alle sue risorse e alla sua professionalità. Questa sana logica si è trasformata in una garanzia per le aziende più che per gli inoccupati, ma questo non importa. O mirato o niente! Voi il termine usatelo comunque: la prima parte (collocamento) vi garantisce le simpatie dei disabili, la seconda (mirato) rassicura gli imprenditori.
Per tutti. Qualsiasi sia l’argomento della vostra relazione, ficcatecelo dentro! “Trasporti per tutti”, “Abbigliamento per tutti”, “Sport per tutti”, “Cinema per tutti”. È una sottolineatura della carica positiva di un progetto o di una mera intenzione. “Questa volta non ci siamo dimenticati degli anziani e dei disabili, ma abbiamo pensato a tutti”. Fa effetto nella sua omogeneizzazione delle esigenze e dei bisogni. Tanto effetto che poi sarà difficile contestare che le soluzioni per i disabili, quindi una parte di quel “tutti”, non sono state attuate.
Mainstreaming. Un termine inglese di sicuro impatto: i bisogni di una certa categoria disagiata dovrebbero essere affrontati non con misure particolari, ma considerati nelle politiche generali di una certa comunità o Paese. Secondo questa logica, ad esempio, l’accessibilità dei trasporti dovrebbe essere risolta non con “soluzioni speciali”, quanto piuttosto garantendo una fruibilità di tutto il sistema trasporti. Un principio encomiabile che dà il destro (risparmiando) di rinviare o limitare le risposte che non lo soddisfano. È un termine che crea una forte aspettativa verso un futuro roseo di integrazione globale. P.s.: non preoccupatevi che la pronuncia sia esatta.
Empowerment. Altro bel termine inglese. È un processo che dovrebbe coinvolgere i membri di una comunità ed accrescere la loro capacità di prendere decisioni ragionate sui problemi e di adottare modalità adeguate per farvi fronte. Nella sostanza essere coinvolti in tutte le fasi progettuali e decisionali che riguardano una collettività. La maggioranza dell’uditorio ignora cosa significhi e si guarderà bene dal chiederlo. Nessuno poi metterà in discussione il fatto che l’empowerment si risolva in un paio di incontri semiprivati fra il presidente dell’associazione più rappresentativa e l’assessore neoeletto.
Vita indipendente. È quasi una filosofia che nasce dall’“assurda pretesa” di alcuni disabili di poter gestire autonomamente la propria vita e la propria esistenza. Essere in grado di autodeterminarsi scegliendo e gestendo, ad esempio, la propria assistenza personale. Anche se siete convinti che questo non sia possibile e che tutto ciò si esaurisca nell’erogare qualche minimo contributo per la badante moldava, lasciate cadere il termine nei vostri discorsi: dimostrerete di essere al corrente e sensibili alla frontiera più avanzata delle politiche sociali.
ICF. La Classificazione Internazionale del Funzionamento. È la più recente e corposa definizione dell’Organismo Mondiale della Sanità che dovrebbe aiutarci a delineare le caratteristiche e le potenzialità delle persone con disabilità (scusate la sintesi). Non c’è convegno, seminario o incontro pubblico che non la citi, quindi adeguatevi. Non importa se in pochissimi hanno approfondito l’argomento e se il settore sia sorvolato dagli avvoltoi della formazione. Citare l’ICF significa essere aggiornati, sapere che c’è un modo diverso di valutare la disabilità e i suoi bisogni anche se nessuno è ancora preparato per farlo e forse non lo sarà mai. Sicuramente poi fra il pubblico nessuno vi farà notare che l’ICF è anche un modo per valutare la qualità dei servizi e delle vostre politiche sociali.
Ultima avvertenza: lasciate scivolare nella vostra orazione qualche elemento strettamente personale che vi ha avvicinato umanamente alla disabilità (un parente, un amico, un collega). Il gioco è fatto e l’applauso garantito. (Carlo Giacobini)