Il 19 per cento degli italiani vive al di sotto della soglia di povertà. La media europea (comprese le new entry dell’Est) è del 15 per cento. Un dato imbarazzante per un Paese che baldanzosamente si bea della sua appartenenza al G8, l’esclusivo club delle otto nazioni più industrializzate del mondo (in compagnia, fra gli altri, di Stati Uniti, Giappone, Germania).
Gli anni recenti, poi, hanno visto aumentare l’instabilità temporale dei redditi e, con essa, il senso di vulnerabilità. In particolare, risultano significativamente peggiorate le posizioni di operai e impiegati, famiglie monoreddito o numerose e famiglie che vivono nel Mezzogiorno.
Le famiglie italiane sostengono inoltre oneri rilevanti per l’assistenza agli anziani non autosufficienti e per i figli, non solo minori (il 70 per cento dei giovani tra i 25 e i 29 anni vive con i genitori, la più alta percentuale d’Europa, nella sostanziale impossibilità, a causa delle difficoltà lavorative ed abitative, di rendersi autonomi nonché di formare nuove famiglie). La carenza di servizi per l’infanzia e per gli anziani contribuisce a mantenere basso il tasso di attività femminile (solo il 45 per cento delle donne ha un’occupazione, 30 per cento nel Mezzogiorno), con effetti negativi sul tasso di crescita potenziale dell’economia e con il corollario di un basso tasso di natalità.
Mica sono riflessioni nostre. Mica sono analisi di organizzazioni non governative o di analisti infervorati di disfattismo e catastrofismo.
Sono espressioni – le abbiamo citate pressoché letteralmente – enunciate nel più recente Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (2007-2011) elaborato dal Ministero dell’Economia. Sono considerazioni che andiamo ripetendo da anni ed una conferma governativa, che proviene per di più da chi regge i cordoni della borsa, rappresenta sicuramente un segnale importante e foriero di rafforzate aspettative.
Il Ministero si spinge anche oltre ammettendo che l’Italia riserva una quota inferiore alla media europea di risorse dedicate al sostegno dei redditi bassi e precari e delle responsabilità familiari, nonché alla fornitura di servizi sociali e abitativi alle famiglie e ai non autosufficienti.
Cosa succederà allora in questa XV Legislatura? I buoni intenti del Governo sono di realizzare un programma, nel campo dei diritti di cittadinanza e delle politiche per la famiglia, in grado di modificare progressivamente l’attuale situazione.
Oltre ad augurarci che ciò possa essere vero e tangibile, non possiamo che sottolineare che questo comporta, la si metta come si vuole, un maggior impegno economico: per realizzare i servizi è necessario investire. Bene, con oculatezza, con attenzione, ma investire. Si prevedono forme di sostegno del reddito, delle famiglie, dei permessi lavorativi, dei servizi ai non autosufficienti: impegni che comportano investimenti costanti e significativi. Se questa intenzione si tradurrà in precisi stanziamenti lo vedremo nella prossima Legge finanziaria.
Certo è che il Ministero una manina avanti la mette: risorse statali sì, ma altrettante devono mettercele le Regioni. Il che può essere accettabile, come può essere condivisibile la logica di premiare quelle Regioni che spendono in modo efficace, efficiente e di qualità. Ma cosa potrà fare il cittadino che ha la sfortuna di abitare in una Regione che è meno attenta ai suoi bisogni e che proprio per questo avrà a disposizione sempre meno risorse dallo Stato?
Riscopriamo, pur dubbiosi, in questi primi intenti del Ministero un’attenzione oramai insperata per le fasce più deboli che tuttavia stride un po’ con altri segnali di opposta tendenza. Non c’è mese, ormai, che l’INPS, l’ente che eroga le pensioni anche alle persone disabili, non evidenzi enfaticamente e con toni drammatici la crescita della spesa a favore degli invalidi civili e fra le righe lasci intendere che, se fossero diversi i criteri di accertamento, l’impegno per l’erario sarebbe inferiore.
Sulla “veridicità” di quelle statistiche non ci addentriamo, ma sarebbe forse significativo avere qualche dato quantitativo in più rispetto ai costi di accertamento dell’invalidità, di controllo, verifica, contenziosi. Sarebbe interessante comprendere quanto l’impianto di controllo (gestito dall’INPS e dal Ministero dell’Economia) costi rispetto alle cifre effettivamente erogate al cittadino disabile.
L’INPS di recente ha iniziato, proprio con l’avallo del Ministero dell’Economia, la revoca delle pensioni per i soggetti che superino i limiti reddituali (infimi) previsti dalla legge. Lo prevede il Legislatore e l’INPS esegue: sospende le provvidenze. Non possiamo contestarlo. Quello che lascia perplessi è la richiesta, fino a due anni indietro, della restituzione di quei quattro euro percepiti.
E lascia ancor più basiti il “metodo INPS” di calcolo del reddito degli invalidi: nel loro reddito si conta anche la prima casa e non si calcolano le eventuali spese mediche, sanitarie o di assistenza specifica, come se quei soldi, quindi, fossero rimasti a loro disposizione.
È forse il caso che, nel solco della nuova attenzione per i cittadini più deboli, si ricordi all’INPS che il controllo della spesa non significa la compressione dei diritti acquisiti. Sarebbe un bel segnale. (Carlo Giacobini)