Durante l’estate l’informazione – televisiva, in particolare, ma anche cartacea – cala ancora il suo livello già mediamente basso nelle altre stagioni.
La gente, si sa, quando è spalmata di protezione solare e pigramente sdraiata su un lettino da 25 euro al giorno, non recepisce approfondimenti fastidiosi. Preferisce il gossip, politico o dello spettacolo, minuziose cronache di delitti granguignoleschi, sangue, sesso e corna. Mettici pure l’estate più calda del millennio, l’emergenza incendi, un po’ di calcio mercato… e rimane ben poco spazio per tutto il resto.
E anche su “tutto il resto” si alzano polveroni, si lanciano allarmi, si fomentano le risse così utili alla vendita dei giornali, e poi una smentita seppellisce l’argomento, anche rilevante, come quello della tassazione delle rendite finanziarie o quello dell’evasione fiscale. Senza spiegare, approfondire, l’“informazione” si limita – rispettosa di una grottesca par condicio – a presentare le carrellate delle prese di posizione di tutti. Senza offrire strumenti perché le persone formino la propria opinione sui fatti, anziché sulle chiacchiere e sulle urla.
Complice la calura estiva passano pressoché sotto silenzio anche notizie e informazioni che potrebbero far aprire gli occhi. Un caso che a noi interessa è la ricerca condotta dal Centro studi della CGIA di Mestre, l’associazione delle piccole imprese e degli artigiani.
Il tema è quello della pressione fiscale, ma non affrontata con slogan e minacce, oppure come mera speculazione politica senza proposte (sostenibili), ma piuttosto denudata dalla forza dei numeri.
I numeri dicono che ogni italiano paga mediamente, ogni anno, 6.665 euro di tasse. Il francese ne paga 6.778 e il tedesco 5.877. Insomma… in Europa c’è chi paga di meno e c’è chi paga di più, quindi non è vero che l’imposizione fiscale italiana, come ha sparato qualcuno, è la più alta d’Europa. O meglio: non è quello il problema…
Ma i dati ci dicono anche qualcosa di diverso: a fronte dei nostri 6.665 euro di tasse versate, ci ritorna indietro una spesa sociale media di 7.047 euro, mentre ai tedeschi, che pur versano meno imposte, tornano 8.655 euro e ai francesi addirittura 9.467.
Il danno maggiore di questa sperequazione lo subiscono le categorie più deboli: disabili, anziani non autosufficienti, indigenti, famiglie numerose o monoreddito.
Un altro dato che fa riflettere: la pressione fiscale in Italia è e pari al 27% del Prodotto Interno Lordo, cioè della “ricchezza” prodotta dalla nazione. La media nei Paesi dell’Unione Europea è del 25,4% con punte (al ribasso) del 22% in Germania.
Ma quanto viene destinato in Italia alla spesa sociale (al netto di pensioni e disoccupazione)? Solo il 9,6% contro il 13,5 % della media europea, il 14,6% dei tedeschi e addirittura il 15,1 dei francesi. E del nostro 9,6% il 6,8% se ne va in spese per la Sanità.
L’indagine della CGIA di Mestre ci offre anche qualche informazione sulle risorse destinate alle persone disabili o anziane non autosufficienti: a fronte di una già misera spesa media in Europa del 2,2%, l’Italia si piazza al penultimo posto con un impegno del 1,7%.
I numeri danno concretezza, smascherano i luoghi comuni, smentiscono le chiacchiere. E fanno sorgere domande imbarazzanti: quale sostegno è realmente possibile con risorse così limitate? Tante belle promesse possono essere davvero garantite da chi ha le tasche quasi vuote?
Le misure antidiscriminatorie, pur difficili da completare, non costano nulla. Sono necessarie battaglie per il rispetto dei diritti civili, contenziosi, scontri, sensibilizzazione, educazione. La discriminazione ha poi un costo sociale indiretto, ma superarla non assorbe risorse ingenti. Sono le politiche di integrazione, di sostegno familiare, di supporto alla non autosufficienza che richiedono risorse più significative.
Il Fondo per la non autosufficienza previsto nell’ultima Finanziaria è molto lontano (lo sa il Ministro, lo sanno le Regioni, lo sanno tutti) dal coprire le reali esigenze, dal garantire una dignitosa assistenza a tutte le persone che ne hanno una necessità disperata e che attualmente sono accudite solo dalle loro famiglie.
Le risorse che arrivano al Ministero della Solidarietà Sociale e, a cascata, alle Regioni, ai Comuni, alle Aziende Usl, sono ancora troppo scarse e, non ignoriamolo, talvolta anche male amministrate.
A tal proposito ci rimane una maliziosa curiosità: su ogni 100 euro di spesa sociale, quanti ne assorbe l’apparato burocratico? Più brutalmente: quanto costa in termini di istruttorie, controlli, indagini, erogare – tanto per dire – 100 euro di contributi per l’assistenza ad un non autosufficiente?
Quanto ci costano le ancora consistenti complicazioni amministrative? Mantenere apparati burocratici che potrebbero essere più agili e snelli? Non saremo così demagogici da ricordare poi i costi della politica o i casi del barbiere della Camera retribuito con un reddito lordo di 133.000 euro l’anno o l’operaio della stessa Camera che trova in busta paga un lordo di 155.000 euro.
Ma – soprassedendo per un istante sugli sprechi e i sovraccarichi burocratici – comunque sia, mancano risorse. Non è un caso che il Ministro della Solidarietà Sociale si sia dimostrato tutt’altro che freddo di fronte all’ipotesi dell’innalzamento della tassazione sulle rendite finanziarie (anche perché nel frattempo il “tesoretto” – cioè i soldi in più inaspettatamente entrati nelle casse dello Stato – ha seguito altre destinazioni). Da quella proposta poteva derivare una boccata di ossigeno per la spesa sociale. Ma anche in quel caso i luoghi comuni e le “opinioni” non suffragate dai fatti, dai numeri, dalle cifre, hanno finito per prevalere sintetizzando il tutto in un ritornello su cui una maggioranza bipartisan si è aggregata: “non bisogna colpire i risparmi delle famiglie”.
Ecco i fatti, per quanto fastidiosi: l’Italia prevede una tassazione del 12,5% sulle rendite finanziarie (BOT, titoli, borsa…), la più bassa d’Europa. I titoli di Stato (BOT, BTP, CTZ) sono sottoscritti solo per il 16% da famiglie e piccoli investitori. Il resto è in mano a banche, aziende, investitori stranieri.
Strano che a nessuno sia venuta in mente una formula molto semplice per differenziare la tassazione, in modo che i piccoli risparmiatori fossero tutelati ed incentivati, ma i grandi investitori pagassero di più.
Strano che si guardi sempre all’estero tranne quando non fa comodo a certi poteri forti. Sarebbe stato sufficiente copiare la salomonica soluzione britannica: le rendite (non il capitale investito, ma solo quello che rende… quando rende) vengono tassate con la stessa aliquota applicata per il reddito dell’investitore. Questo bastava per far pagare il giusto a tutti e a ognuno secondo la propria possibilità. Avrebbero pagato molto di più aziende, banche, multinazionali, quei soggetti che in borsa e con i titoli di Stato proteggono i loro già ampi margini di profitto. E quegli introiti sarebbero stati molto utili alla spesa sociale cioè al cittadino, soprattutto quello più debole.
Invece con lo slogan “non bisogna colpire i risparmi delle famiglie” chi ne ha tratto beneficio non sono certo le famiglie, né la spesa sociale che è rimasta a bocca asciutta. Asciutta, ma ciarliera di buoni propositi. (Carlo Giacobini)