In questi giorni le colonne dei quotidiani e le aperture dei TG sono assediate dal “Caso Welby”, ovvero la via italiana all’eutanasia. Dopo gli Stati Uniti, la Francia, il Belgio, l’Olanda, anche in Italia si affronta, con passione e spaccature, un tema drammatico, penetrante, a tratti straziante.
Forse quando questa rivista arriverà nelle case, cioè fra una ventina di giorni, il fervente dibattito si sarà già stemperato (come molti altri) e ciò farà apparire queste riflessioni come superate, fuori moda, giornalisticamente “cotte”. E questo la dice lunga sulla effettiva profondità della riflessione.
Al di là di alcune speculazioni politiche, e del sensazionalismo che giova alla peggiore stampa, la questione è davvero rilevante e toccante. Temi come l’accanimento terapeutico, il testamento biologico, le cure palliative, il diritto ad un trapasso dignitoso e sereno sono spesso mescolati in un unico calderone mediatico che non giova certo alla riflessione, ma serve solo a dividere gli ascoltatori fra pro e contro, come se si trattasse di Coppi o Bartali, monarchia o repubblica.
Ma il tutto è molto più serio: si sta parlando di persone, persone che stanno per morire. La differenza, sostanziale e morale, fra l’“astenersi dal fare” perché gli interventi di tipo sanitario protrarrebbero e basta il dolore e la sofferenza, e il “fare per” accelerare un trapasso, non è sottile: coinvolge in modo profondamente diverso il “terzo”, cioè quella persona che dovrebbe agire per porre fine alla vita di un altro. E qui sta la differenza. La vera profonda natura della querelle.
Non abbiamo molto da aggiungere a quanto sia già stato espresso, bene o male, da altri. Fra le tante posizioni espresse, anche i Lettori, forti della propria morale e forgiati dalle proprie esperienze esistenziali, avranno già maturato la loro convinzione, che non abbiamo la presunzione di voler cambiare.
Su di un risvolto tuttavia vorremmo attirare l’attenzione. In più di un’occasione, nel corso di questo lungo dibattito, si è andati oltre le motivazioni che renderebbero plausibile una dolce morte (sofferenza insostenibile, dannosità inutile delle cure, accanimento terapeutico), per giungere su elementi più sdrucciolevoli quali quelli della qualità della vita la cui perdita, contestualmente alla dignità di questa, sarebbe un motivo a supporto dell’eutanasia. Anche su questo ognuno può mantenere la sua idea. Tuttavia la qualità della vita non dipende solo dal singolo e dipende ancora meno da lui nel momento in cui è più debole, più fragile, più malato, irrimediabilmente malato.
La sua qualità della vita, e quella dei familiari che lo assistono, non è il mero ineluttabile effetto di una malattia, di un’infermità devastante, ma è anche il prodotto della collettività che gli sta attorno, dell’umanizzazione dei servizi pensati per queste situazioni, del sostegno possibile e di quello effettivo.
Poco, troppo poco, si è evidenziato di come le famiglie rimangano troppo spesso sole, abbandonate, oltre che con il dolore nel vedere soffrire una persona, anche con il sovraccarico enorme di prestare un’assistenza continua e difficile. Quello che c’è, lo dà in massima parte il volontariato. E non basta! Chi non ci crede può entrare in un qualsiasi ospedale.
Poco, troppo poco, si è rilevato di cosa sia, troppo spesso ed effettivamente, l’ospedalizzazione a domicilio, di quanto i servizi vengano limitati per problemi di budget se non addirittura per incapacità organizzative.
Poco, troppo poco, si sono presentati i tanti casi di persone con disabilità gravissime, magari attaccate ad un ventilatore come Piergiorgio Welby, che l’ultima cosa che vogliono è andarsene, ed hanno una carica di vitalità frustrata solo dal non essere messi in condizione di accedere a tecnologie, strumenti, servizi (costano troppo!) che renderebbero migliore la loro esistenza, breve o lunga che sia. A tanto afflato morale per chi soffre non corrisponde un conseguente impegno finanziario per garantire nuove risorse per la sanità ed il sociale.
Morire serenamente è un diritto di ogni individuo, ma è altrettanto forte (e, se permettete, temporalmente più lungo) il diritto di vivere con dignità e con tutta la pienezza possibile, anche quando le condizioni di salute sono severamente minate. Avremmo voluto vedere altrettanta forza nel far emergere anche questa istanza che richiede un maggior impegno pratico ed economico che staccare una spina. Così non è stato. (Carlo Giacobini)