“Ho 60 anni, ho la distrofia muscolare. Questa infame malattia non mi permette più di spostarmi dalla sedia al letto. Mia moglie, malata, non ce la fa più. Grazie alla vostra rivista ho scoperto un sollevatore a binario che potrebbe risolvere molti dei miei problemi. Ho chiesto alla mia Azienda Usl e dopo un mese mi hanno finalmente risposto chiedendomi di presentare un preventivo. Dopo altri quaranta giorni hanno mandato un assistente sociale a casa che mi ha detto che, a malincuore, la mia richiesta non poteva essere accettata perché non rientra nel nomenclatore tariffario e l’Azienda Usl non può sostenere altre spese. Mi sento abbandonato da tutti e passo le notti sulla carrozzina, poggiando solo la testa sul tavolo”.
Un pugno nello stomaco, vero? Ma non bastano i sentimenti di com-passione, di pena, di pietà umana. Servono a poco anche i moti di rabbia. Bisogna tentare di trovare una spiegazione, un perché e non per un rovello inconcludente, ma per darsi una soluzione sostenibile, equa.
C’è una legge, una norma approvata dal Parlamento, che afferma che è compito dello Stato fissare i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi sociali per garantire una risposta omogenea su tutto il territorio nazionale. È una legge del 2000, la numero 328. Sono passati 8 anni ma questi “livelli essenziali” nessun governo si è azzardato ad approvarli.
Troppo impegnativo? Forse. Certo è che se i livelli essenziali fossero già impositivi, il nostro Lettore, in buona compagnia, potrebbe vantare un diritto soggettivo e non solo un interesse legittimo. C’è una bella differenza: forte del primo potrebbe costringere qualsiasi Azienda Usl, qualsiasi Comune o chiunque sia tenuto ad erogare un servizio o una prestazione, a fornire quello che serve per la sua dignità. Se ha solo un interesse legittimo, può, al massimo, contare sull’attenzione compassionevole. La differenza fra la carità e un diritto.
Abbiamo voluto inseguire il decentramento, togliere responsabilità e competenze ad uno Stato troppo spesso lontano dalle esigenze della periferia, dalle peculiarità del territorio. Giusto, per certi versi, responsabilizzare Regioni, Province, Comuni, Comprensori, Comunità Montane, Circoscrizioni, Quartieri. Corretto, a lungo termine, forzarne e incanalarne la tensione progettuale. Ma questa spinta centrifuga e parcellizzante comporta anche dei rischi, pericoli che vanno al di là del moltiplicarsi – denunciato da alcuni – delle poltrone disponibili. Rischi per il cittadino la cui qualità della vita e dei servizi disponibili dipende sempre più dal luogo in cui nasce, dalla capacità di chi gestisce la cosa pubblica, dall’interesse per la solidarietà, per la qualità dei servizi sociali, per i diritti umani (sì, diritti umani, non semplicemente diritti civili!).
È un decentramento zoppo quello che ci siamo ritrovati, che ha conservato la peggiore eredità di uno Stato centralizzato e acquisito la debolezza delle risposte localizzate. In questo quadro chi ne soffre di più sono, ancora una volta, i cittadini più deboli, quelli che abbisognano di servizi reali e non di compassione.
Lo si temeva nel 2000 e oggi ne abbiamo le prove. Perché non cambiare allora? Perché non rendere applicabile una norma che altrimenti è carta straccia? Perché impegna a destinare risorse certe al sociale, perché costringe le Regioni a rispettare categoricamente alcuni limiti, alcuni tempi, senza la scappatoia di un “le Regioni possono”, anziché di un “le Regioni devono”.
Una generale deresponsabilizzazione in cui è agevole rimpallare colpe, competenze e ritardi, ma che finisce per provocare il sempre maggiore distacco del cittadino dalle istituzioni, locali o centrali che siano.
In attesa che vengano fissate regole inderogabili, i “casi umani” rimangono tali: fatalisticamente imprevedibili o drammaticamente inevitabili e non già, piuttosto, gestibili in modo professionale dai servizi sociali. Meglio provare pietà che agire per evitare i drammi di cui nessuno si prende la propria dose di colpa. (Carlo Giacobini)