Di recente ho partecipato ad un appassionato confronto e ad un’elaborazione sul tema della segregazione delle persone con disabilità. È sorprendente come, a quasi 40 anni dalla legge Basaglia, esistano ancora in Italia strutture in odore di istituzione totale. Vi albergano – parrebbe – circa 250mila persone fra disabili e non autosufficienti. Istituti cosiddetti di ricovero, assistenziali o socio sanitari che ben poco hanno a che spartire con un normale ambiente domestico, aspirazione di ognuno di noi.
La rivendicazione – scientifica, culturale, politica – è allora tutta volta ad individuare con certosina precisione quali siano le strutture segreganti per far sì che non vengano più accreditate e poi pagate con denaro pubblico. Ma l’intento è soprattutto blindare le condizioni perché le persone possano vivere dove, come e con chi vogliono come impone la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Non sarà né semplice né rapido poiché le resistenze, anche subdole, sono ramificate e forti.
In queste considerazioni sono convintamente immerso e senza titubanze. Tuttavia provo un senso di incompletezza, una sensazione che aumenta più osservo e più ci penso.
Se esiste la segregazione, e su questo non credo vi siano dubbi, e se essa è riprovevole e inumana al di là dei numeri, com’è possibile ricondurla alle sole istituzioni totali? Davvero possiamo ritenere che quei luoghi siano lo scenario principale in cui si la segregazione alligna?
Qualche giorno fa è morto Guglielmo Scartozzi. Dovreste conoscerlo? No, il nome non è molto importante, è significativa ed emblematica la storia. Guglielmo, 94 anni, invalido di Pescara è morto in casa sua dopo 5 anni di reclusione. Da un lustro continuava a invocare un ascensore, supplicava inutilmente nonostante qualcuno si fosse mosso per supportare la sua umanissima richiesta. ISTAT liquiderebbe la sua storia come un impedimento dovuto alla sua menomazione (si vedano gli “indicatori” adottati per descrivere le condizioni di vita delle persone con disabilità).
Quella dello Scartozzi è una storia come tante (quante?), una vicenda in cui il luogo dove si sconta una pena detentiva è la propria abitazione e non solo per limiti strutturali o barriere, ma anche per l’assenza di assistenza o peggio.
Nel “peggio” ci mettiamo la compressione della libertà di cui talora sono secondini – consapevoli o meno – gli stessi familiari più meno prossimi, più o meno presenti. Alle istituzioni totali contestiamo l’organizzazione soffocante che impedisce alle persone di conservare relazioni con l’esterno, di decidere i propri ritmi e i propri tempi, di godere della propria privacy di coltivare le proprie passioni e inclinazioni. E, talora, di abusare di contenzione anche con mezzi farmacologici per sconfinare negli abusi e maltrattamenti.
Ma quanto spesso questo accade anche nelle abitazioni private? Nelle famiglie delle persone anziane o con disabilità? In quegli stessi contesti che si indicano come esempio ideale per il ripensamento delle strutture per l’abitare?
Ce lo raccontano tante persone, giovani e meno giovani, della loro voglia, del loro sogno di uscire di casa, di vivere il loro essere adulti affrontando anche i rischi e le difficoltà che questo comporta.
Va anche aggiunto, per non far torto nessuno, che anche i familiari, spesso vivono l’isolamento che spesso diviene vera e propri segregazione per assenza di supporti, per assenza di alternative, di una speranza per l’immediato futuro, della inconscia convinzione dell’immutabilità delle situazioni.
Da qui nasce il senso di incompletezza delle riflessioni sulla segregazione. È fin troppo semplice additare le istituzioni totali come la sentina in cui alligna segregazione, esclusione e anche trattamenti inumani o degradanti. Forse, domani, sarà anche possibile entrarci e cambiare processi, esiti, situazioni, con verifiche, controlli, standard, formazione…
Ma nella riservatezza delle case familiari avremo altrettanta capacità e discernimento e risorse per migliorare davvero le condizioni di vita delle persone e delle loro famiglie? (Carlo Giacobini)