Mentre scrivo queste scarne riflessioni o di fronte l’immagine di un’opera di Costantin Brancusi che riposa (la scultura, non lui) al Museum of Art di Philadelphia. È la Scultura per ciechi che l’artista romeno realizzò poco più di cent’anni fa. Non fu – va detto – un’opera realizzata con intenti filantropici o informata alla pietà, ma espressione di un elaborato percorso artistico e intellettuale che attraversa buona parte dell’età matura dello scultore ed è una reintrepretazione originalissima dell’astrattismo.
Brancusi si sarebbe offeso dell’affiancamento a quella corrente poiché, lo dicono i suoi scritti e fiumi di analisi di critici d’arte, rivaluta e considera i sensi, tutti i sensi, nell’approccio non solo all’arte ma anche alla percezione della realtà circostante. Quella forma, priva di rilievi, perfettamente liscia, come altre della sua produzione, per essere realmente percepita, compresa deve essere toccata ad occhi chiusi. Qui il suo messaggio: per cogliere lo spazio, la realtà delle forme, alcuni particolari (intesi come parte di un tutto) occorre anche essere ciechi. Lo sforzo di liberarsi di condizionamenti consente una lettura forse più sorprendente, sicuramente differente, della realtà.
Qui mi fermo con Brancusi per meditare su come dopo un secolo queste intuizioni, come pure la profondità di certe considerazioni, sia sideralmente lontana dalla attuale aridità culturale di talune prassi, stereotipi, pregiudizi mai sfiorati dall’ipotesi che una persona, in ispecie se un professionista, maturi strategie spesso innovative, sempre originali, nello svolgere le proprie mansioni compensando bellamente le funzioni limitate. E, non infrequentemente, ne tragga metodologie e raffinatezze apparentemente imprevedibili.
E allora davvero sale un senso di sconforto (culturale) quando, in un avviso per due posti di psicologo destinali al servizio di psicologia clinica, precari per di più, fra i requisiti per l’ammissione si legge: “La condizione di privo della vista comporta inidoneità fisica specifica alle mansioni proprie dei profili professionali per i quali è bandito l’avviso (…), perché le medesime comportano l’esame clinico dei pazienti, la lettura di referti, l’utilizzo di apparecchiature e l’espletamento di tecniche e manualità.”
Per completezza di cronaca è un avviso (il n. 25/2021) emesso dall’Ospedale Maggiore, ASST di Crema, Regione Lombardia. Gli ambiti di destinazione sono quelli dell’oncologia e delle cure palliative.
Non voglio qui nemmeno entrare nel merito della liceità di questo vincolo posto dall’avviso. Non intendo osservare come l’inidoneità specifica alle mansioni sia difficilmente sostenibile a priori.
Nemmeno indugio a intravedere la violazione dell’articolo 3, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.) che prevede espressamente la parità di trattamento anche per persone con disabilità in riferimento a “a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;”.
Men che meno voglio inventarmi costituzionalista sventolando la garanzia di accesso – in condizioni di eguaglianza – ai pubblici uffici da parte dei cittadini in possesso delle competenze professionali richieste e (art. 51, c0. 3, Cost.).
Ci penserà il giudice, in scienza o coscienza nel caso in cui uno psicologo cieco, rifiutato all’ammissione, decida comprensibilmente di ricorrervi.
Devo però, stizzosamente incuriosito, chiedermi, e interrogare gli amici psicologi, fino a che punto la cecità possa influire sull’esame clinico del paziente. Perché se l’impedimento è quello ventilato a Crema gli psicologi ciechi non dovrebbero nemmeno essere iscritti all’Ordine, risparmiando la relativa quota.
Sulla lettura dei referti la considerazione è ancora più subdola: se i referti non sono accessibili allo psicologo, non lo sono nemmeno per il diretto interessato nel caso egli sia non vedente. E se non sono accessibili significa che qualcuno li ha prodotti illecitamente (cortesemente si eviti di replicare con la diagnostica per immagini).
Anche sulle apparecchiature ammetto la mia ignoranza che imploro sommessamente di colmare: quali indispensabili marchingegni può usare uno psicologo in un centro di cure palliative per svolgere la sua attività?
Intorno alla manualità, che la cecità secondo i cremaschi impedirebbe, evito ogni commento per non infierire.
Dobbiamo solo sperare che tutto ciò sia solo uno scivolone, il frutto di un errore da copia incolla, un incidente di percorso, ma soprattutto che non venga imitato e ripreso in altri contesti, da altre amministrazioni.
Resta la sconveniente sensazione che al contrario ciò sia la cristallizzazione di pregiudizi più o meno diffusi che purtroppo non investono solo gli psicologi ciechi – e non sono certo poche decine – ma molte persone con disabilità che, dopo impegnativi percorsi formativi, la loro professionalità l’hanno raggiunta, maturata, adattata superando le limitazioni funzionali. E gli viene frapposta una ipotetica inidoneità alle mansioni specifiche. Insomma, ancora non ci siamo, culturalmente prima ancora che giuridicamente.
Con buona pace del compianto Brancusi.