Nei mondi reali, non in quelli oniricamente vagheggiati dalle convenzioni internazionali, poche situazioni, anche se non andiamo di fretta, fanno salire il sangue alle testa come la lentezza degli altri. Non neghiamolo.
Il conducente a 30 miglia all’ora a filo della linea di mezzeria, la donnina anziana alla cassa del supermercato che imbusta la spesa troppo lentamente. L’anziano che tenta di orientarsi impacciato in treno o che si fa ripetere più volte le stesse indicazioni. L’obeso che sale troppo adagio le scale. E mille altre gestualità, soprattutto dei vecchi, rallentate, pigre, intorpidite.
Se li aiutiamo, il più delle volte non è per umana pietà, ma per fretta, per toglierceli di mezzo nel modo più sbrigativo ed efficiente perché disturbano il ritmo convulso che la modernità impone.
Non è un mondo per lenti.
Non è ancora un mondo in grado di accettare, prima ancora che di rispettare, il principio che le persone, nella loro variegata diversità, hanno velocità differenti, capacità di reazione diverse, tempi di azione difformi. E mutevoli anche a seconda delle condizioni in cui si ritrovano o impresse talora da chi sta attorno. Più lenti a muoversi e a partire, più lenti a orientarsi e a ritrovarsi, più lenti a leggere e a capire, più lenti ad adattarsi alle situazioni inconsuete.
Non è giammai un mondo che questa diversità ce l’abbia chiara. Si riverbera in quelle mille occasioni, anche profondamente umane e vitali, in cui alcune persone hanno bisogno che gli venga concesso un po’ di tempo in più per fare le cose.
E Iddio lo sa quanto ciò impatti profondamente, prima ancora del pregiudizio e dello stigma, sulla disabilità o su chi è anziano.
Incide a scuola, quando il tempo di esecuzione di una consegna o dedicato all’apprendimento diviene centrale per misurare il successo di una didattica che di speciale ha ben poco.
È fondante – va da sé – al lavoro dove i tempi di esecuzione sono un marcatore se funzioni oppure no, se sei produttivo oppure non lo sei. Non è rilevante se ce la fai oppure no, se il tuo prodotto è giusto o difettato, ma quanto tempo ci hai messo a confezionarlo.
È insistente, lo abbiamo detto, nei gesti quotidiani, al bar, al supermercato, nella quotidianità che porta in contatto con altri. Nello svolgere piccoli gesti essenziali, dal pagare un caffè a fare un bancomat. Hanno tutti fretta, una dannata fretta, fatta di sbuffate e imprecazioni più o meno sottovoce.
Non è un mondo per lenti.
Ed entra anche nella salute, nel curare e nell’avere cura, in quei momenti in cui l’orologio non dovrebbe avere valore. Una visita specialistica, una terapia, un intervento, un consulto soprattutto, l’accoglienza in reparto, al pronto soccorso, in ambulatorio hanno necessità di maggiore attenzione, di parole in più, di trasmettere calma, serenità, di farsi intendere, di empatia con chi ha bisogno di aiuto. Sono tutte accortezze che fanno la differenza ma che richiedono di investire il bene più prezioso che abbiamo: il tempo. Certo questo mal si coniuga con i ritmi, le scansioni, i controlli di qualità (così la chiamano) che alla sanità sono stati imposti e che divengono elementi di verifica, di sostenibilità o di malintesa appropriatezza. E quindi per ogni atto medico sono presunti dei tempi standard. Non importa se quella visita interessi un anziano che ci mette il doppio del tempo a togliere la maglia della salute, o che riguardi un ragazzino autistico che ha bisogno prima di adattarsi all’ambiente, o una ragazza tetraplegica che deve spostarsi sul lettino o una persona ipoacusica che fatica a comprendere subito la spiegazione. Rapidi, tempo, minutaggio, prestazioni per giorno, fuori la gente aspetta.
Non è un mondo per lenti.
Di fronte alla evidente semplicità di questa constatazione appaiono quanto mai deboli, e lontane dalla dannata concretezza del quotidiano, talune teorizzazioni sociologiche sull’inclusione, i nuovi e vecchi slogan, le altisonanti parole d’ordine italiane e, più spesso, forestiere, le affaristiche ricette risolutive fatte di millantate eccellenze, il richiamo a norme di vent’anni fa utili a foraggiare improbabili contenziosi e ghiotte parcelle. In un profluvio di pareri, di convegni, di tavoli, di task force, di rapporti che si prendono – paradosso! – tutto il tempo possibile per accordarsi, con calma, su soluzioni che avranno, forse, prospettive generazionali.
Questa però non va annoverata nella categoria della lentezza, ma in quella meno nobile dell’inconcludenza che nulla spartisce con il diritto alla lentezza, ai propri ritmi, al proprio tempo.
Diritto di tutti non foss’altro perché prima o poi lenti lo diventiamo tutti.
O almeno ve lo auguro.