“La demagogia è la capacità di vestire
le idee minori con parole maggiori.”
(Abraham Lincoln)
Solo per agilità espositiva, adattandomi anche alla narrazione che la tratteggia come svolta epocale per i diritti della persone, adotto il sintetico lemma “riformona” per riferirmi al decreto legislativo che reca un ben più rutilante titolo (tirate il fiato ché è lungo): «Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato». Il testo è in queste ore all’esame delle Commissioni parlamentari da cui uscirà – c’è da immaginarlo – non molto dissimile da come ci è entrato dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri e in Conferenza Stato Regioni.
La riformona – ce lo ricordano ad ogni piè sospinto – l’ha voluta l’Europa quando siamo andati a raccattare i corposi finanziamenti del PNRR. Per questo, in fretta e furia, a dicembre 2021 abbiamo approvato una delega specifica sulla disabilità al Governo e il testo che leggiamo oggi ne è uno dei risultati.
Non è una leggina marginale, perché riguarda sicuramente aspetti delicati per qualche milione di persone con disabilità e gli oneri che devono sopportate anche solo per vedersi riconoscere la loro condizione e poi per ricevere pensioni, agevolazioni, servizi. Ce ne sono molte da dire su quel testo, ma avete poco tempo per leggere e dunque prendiamone un pezzo per volta. Per ora mi fermo al lessico.
A 15 anni dalla ratifica in Italia della Convenzione ONU, il decreto recepisce la definizione di disabilità: “È persona con disabilità chi presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri, accertate all’esito della valutazione di base.”
Più o meno la definizione è quella uscita dal Palazzo di Vetro quasi 20 anni or sono, se non fosse per “impairments” tradotto con “compromissioni” e non più con “menomazioni”. Suona meglio, forse, più elegante, meno offensivo. C’è anche un’altra differenza sostanziale: la disabilità non esiste se non è accertata con la valutazione di base. Diviene oggettiva solo se un’autorità preposta l’ha sancita.
La riformona poi dedica un articolo specifico alla terminologia in materia di disabilità: “La parola: «handicap», ovunque ricorre, è sostituita dalle seguenti parole «condizione di disabilità».”
E ancora: “le parole: «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «persona con disabilità».”
Insomma, per legge, quelle parole brutte, in un impeto di linguaggio inclusivo, sono finalmente soppresse e i testi dove compaiono rigorosamente emendati.
In questa operazione di “cerca e sostituisci” sortiscono bizzarri esiti.
Alla stessa legge 104/1992, la vecchia legge quadro sull’handicap, all’art. 5. “Principi generali per i diritti della persona handicappata”, il nuovo testo uscirebbe così: “i) promuovere, anche attraverso l’apporto di enti e di associazioni, iniziative permanenti di informazione e di partecipazione della popolazione, per la prevenzione e per la cura delle disabilità, la riabilitazione e l’inserimento sociale di chi ne è colpito.”
Ohibò! La disabilità è quindi una malattia?
Oppure, ancora, all’articolo 6 “Prevenzione e diagnosi precoce”: “a) l’informazione e l’educazione sanitaria della popolazione sulle cause e sulle conseguenze della disabilità, nonché sulla prevenzione in fase preconcezionale, durante la gravidanza, il parto, il periodo neonatale e nelle varie fasi di sviluppo della vita, e sui servizi che svolgono tali funzioni;”
O ancora: “3. Lo Stato promuove misure di profilassi atte a prevenire ogni forma di disabilità, con particolare riguardo alla vaccinazione contro la rosolia.” Quando per anni si è usato handicap anche come sinonimo di menomazione è il minimo che possa accadere, ma chi immagina queste operazioni di pulizia dovrebbe averne contezza.
Siamo tutti, comunque, molto felici della rimozione collettiva del termine handicap e handicappato, davvero ormai stridente con una cultura che vuol essere indubitabilmente inclusiva e felice.
Ma “invalido” si potrà ancora usare? Certo che sì: lo stesso testo del decreto lo conferma. L’accertamento dell’invalidità civile rimane centrale nella valutazione di base, con tanto di percentualizzazione.
E resta anche vigente e intonsa la definizione di invalidità, quella scolpita nel 1971. Vogliamo rileggerla? “si considerano mutilati ed invalidi civili i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età.”
Handicappato non si potrà più usare, ma potremo ripiegare impuniti su “irregolare psichico”, magari su “oligofrenico” o più genericamente su “mutilato”.
Se la riformona si basa sul cambio terminologico non è un buon inizio.
Ma vediamo il seguito nella prossima puntata.