La riformona e la botta di vita

Ogni progetto è una forma camuffata di schiavitù.
(Emil Cioran)

C’era una volta il progetto individuale forgiato per garantire “la piena integrazione delle persone disabili (…), nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro”.
La definizione arriva dalla Grande Incompiuta, la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, la 328 del 2000 per usare l’abbreviazione tecnicistica ripetuta alla nausea in mille simposi. Una norma approvata pressoché in concomitanza con una riforma costituzionale che cambiò la distribuzione delle competenze, fra le quali quelle dell’assistenza, fra Stato e Regioni, con ciò che ne deriva nel bene e nel male.
Ma torniamo al progetto individuale. Dopo l’enfasi della definizione, la doccia fredda: è comunque condizionato dalla risorse disponibili. È un diritto solo farselo redigere; quanto poi a renderlo esigibile come una cambiale rimane una puerile fantasia.


Mille voli pindarici hanno volteggiato attorno a quel “progetto”, riformulandone l’aggettivo (individualizzato, personale), elaborando schemi per la definizione preliminare aggiungendo rassicuranti caselle da barrare, facendo pomiciare schede sociali e sanitarie, aggiustando le procedure per farlo apparire più partecipato, ma alla fine… Alla fine sempre i conti con la sostenibilità ne governano la redazione. Il progetto individuale diventa la modalità più liscia per salvare le apparenze di terzietà e oggettività conciliandole con le effettive risorse a disposizione.
Il progetto viene redatto in base a ciò che il sistema può offrire, non è il sistema che offre quello che i singoli progetti, redatti in ben altro modo, e i loro protagonisti richiederebbero. E quando ancora le risorse sono insufficienti si ricorre ad altri scientifici strumenti di contenimento: l’ISEE, la compartecipazione. Lo chiamano universalismo selettivo.


Quanto sia velleitaria quella definizione originaria lo sanno le persone e le loro famiglie. “Sì, progetto personale! Ma quanto mi dai?” è un interrogativo che viene rintuzzato da “Vuoi quel contributo? Vuoi quel servizio? Devi superare il vaglio del progetto individuale, dimostrare quanto sei grave, qual è il tuo ISEE.” Ed è così che nel progetto si ritrova magari solo l’inesorabile accoglienza in un centro diurno, talvolta unico monopolistico servizio presente in quel territorio, o 4 o 5000 mila euro a garanzia della tua vita indipendente, come accade in alcune realtà che hanno anche l’ardire ad ergersi a modello nazionale. Le rimanenti mutevoli esigenze rimangono a carico del singolo e della sua famiglia o della compassionevole carità. I sogni, le inclinazioni, le aspettative sono imbottigliate nella cruda realtà dell’offerta di servizi sempre più standardizzati, sempre meno flessibili. Sempre più nelle mani di pochi.
E se ci sono eccezioni arrivano da quelle comunità che con caparbietà hanno tentato di sviluppare qualche risposta alternativa, qualche prassi generativa, qualche modellizzazione innovativa, sostenibile quanto misconosciuta a chi premia invece la conservazione e gli oligopoli, magari ammantati da illuminato terzo settore.

Questo fino ad ora. Ora arriva la riformona – quella sul riconoscimento della disabilità e sul progetto di vita – che cambia tutto ciò. Forse.

La narrativa per essere efficace ha bisogno di parole nuove, di un lessico rinnovato e funzionale alle suggestioni, al lievitare di nuovi sogni, a foraggiare le speranze. Ecco allora che il progetto viene pomposamente ribattezzato di “vita individuale personalizzato e partecipato”. Individuale perché sia mai che si ammetta che la nostra esistenza di individui è fondata sulle relazioni. Personalizzato per non far sembrare che la progettazione sia standardizzata (come invece è). E “partecipato” per dare evidenza che la persona – o chi lo affianca – conserva comunque diritto di parola. Sul “di vita” corre un certo brivido dietro la schiena: che sia più o meno gradevole lo lascio stabilire al lettore.
Chiunque non viva la disabilità intravede le proprie traiettorie di vita e agisce di congruenza riformulandole, dandole per scontate, modificandole, stravolgendole, accantonandole financo, senza che qualcuno gli imponga di formalizzarle.
Chi è una persona con disabilità, al contrario, per avere un sostegno, un supporto, un aiuto, anche transitorio, deve sottoporsi al vaglio di un’équipe di esperti e tecnici, deve essere profilato secondo griglie e schemi informati da un certo mito scientista, deve subire il ricalcolo di quanto già lo Stato spende per lui, delle sue disponibilità economiche, prendere atto che esistono dei caregiver familiari, chiedere se le sue aspirazioni sono sostenibili e fino a che punto, e quindi giungere alla formalizzazione del progetto di vita individuale, personale e partecipato su cui si impegna.
Il testo è illuminante anche rispetto al peso ponderatissimo che assumono le istanze, le aspettative, le aspirazioni della persona. Infatti è previsto che nel progetto di vita siano riportati “gli obiettivi della persona con disabilità risultanti all’esito della valutazione multidimensionale”. Mica tutti! Solo quelli ritenuti adeguati ed appropriati dall’Unità di valutazione. Alla faccia della partecipazione e, se vogliamo dell’autoderminazione: tu partecipi e conti sì, come il due di coppe quando va di spade.

Questo però è il percorso che disciplina la riformona, al netto della demagogica comunicazione.
Il progetto di vita è redatto formalmente al termine di una valutazione multidimensionale (che viene dopo la valutazione di base) e dovrebbe indicare tutti i supporti e i sostegni necessari per realizzarlo. Il che è apparentemente positivo e tranquillizzante se non fosse vivo il retropensiero che governi comunque la regola della sostenibilità e delle risorse. Davvero possiamo credere che se una persona per realizzare al minimo la sua indipendenza o la sua inclusione o le sue aspettative ha necessità di ristrutturare la propria abitazione e di due assistenti nell’arco delle 24 ore, una Unità di valutazione (che dipende dalle ASL e dagli ambiti sociali) sarà disponibile a scriverlo nero su bianco? E a farlo diventare un impegno? E ad affermare che il progetto è adeguato e appropriato come prevede il decreto?


Che sia una millanteria appare evidente dal previsto budget di progetto. Il budget di progetto è la gamba economica su cui si dovrebbe reggere il progetto di vita. Ed è illuminante ripercorre cosa vi confluisce: “l’insieme delle risorse umane, professionali, tecnologiche, strumentali ed economiche, pubbliche e private, attivabili anche in seno alla comunità territoriale e al sistema dei supporti informali.”
Con una precisazione: i “soggetti responsabili dei servizi pubblici sanitari e socio-sanitari (…) si avvalgono delle risorse complessivamente attivabili nei limiti delle destinazioni delle risorse umane, materiali, strumentali e finanziarie dell’ambito sanitario”.
Sembra proprio che il budget di progetto sia un modo per riconteggiare e valorizzare tutti gli interventi che già sono garantiti al singolo.


Risorse, risorse, risorse… Quali altre risorse possono essere impiegate? Di “nuovo” c’è un fondino di 25 milioni che rasenta il ridicolo se commisurato alle enfie ambizioni. Poi i soliti canali: il decreto conta di usare il già esistenti Fondo per la non autosufficienza e il Fondo per il “dopo di noi”; include in modo incomprensibile anche un Fondo sul diritto allo studio universitario… e poi, a testimonianza dell’alto profilo della norma decantato da taluno, il decreto include anche il ricorso al Fondo per i caregiver familiari. Quest’ultimo però non esiste più: è stato soppresso dall’ultima legge di bilancio. Insomma la trippa per i gatti è sempre la stessa.
Ci sarà un referente per l’attuazione del progetto di vita. Il suo profilo sarà definito dalle singole regioni, ma sono indicati già i suoi compiti, il primo e prioritario dei quali è “dare impulso all’avvio dei servizi, degli interventi e delle prestazioni in esso previsti.”
Lo immaginiamo nel suo quotidiano operare al telefono con l’ambito territoriale: “Orsù, dai: avviate”. “Dare impulso” è un po’ lontano da un diritto soggettivo no?

Chi ha elaborato il testo della riformona è tanto convinto dell’efficacia dell’acquerello proposto, della massiva fideistica adesione a questo disegno, della sua intangibilità che non ha nemmeno previsto formule di ricorso o di prevenzione o composizione dei conflitti. In pratica andrà talmente tutto bene da non immaginare che nessuno debba presentare ricorso.

Come poi atterrerà tutto questo nelle politiche e nei servizi delle singole regioni, fra loro molto differenti come impostazione e scelte, rimane un mistero. Un altro fra i tanti, ma si sa: la narrazione ha bisogno anche di questo.

Sono tormentato da un tarlo che tento di ricacciare per il suoi sentori complottisti: e se tutto questo non fosse altro che un raffinato sistema di controllo della spesa e di cristallizzazione delle risorse? Ci sto provando a cancellare il dubbio – anche perché presupporrebbe ampie complicità -, ci sto provando ma non ci sono ancora riuscito.

P.s.: il testo dello schema di decreto, la relazione tecnica e altri documenti sono disponili nel sito del Senato