La verità trionfa da sola, la menzogna ha sempre bisogno di complici
(Epitteto)
Un termine che mai ricorre nella riformona sulla disabilità è quello di “segregazione”. E d’altra parte non lo si trovava neppure nella legge delega da cui discende il decreto legislativo, ormai in dirittura d’arrivo dopo i pareri delle Camere.
È un fenomeno che sembra rimosso. Forse è troppo imbarazzante per un Paese civile, forse costringerebbe a riflettere sulle variegate declinazioni che pur hanno in comune la privazione della libertà, la compressione dell’autodeterminazione (che viene prima della vita indipendente). Segregazione che si consuma negli istituti, nelle RSA, nelle comunità residenziali talora: ce lo ha riportato schiettamente anche il Garante per le persona private della libertà personale. Segregazione finanche all’interno della propria abitazione per assenza di ogni possibilità di praticare il contesto vicinale e prossimale. Segregazione dei caregiver familiari che, per assenza di sostegni, sono inchiavardati fra le quattro mura di casa alternano le ore fra sonno (poco) e lavoro di cura.
Ce n’è abbastanza per poter affermare che è una faccenda dannatamente delicata che certamente meritava più marcati accenti, un altro lessico, un’altra visione, altre priorità, rispetto a quanto borbottato in proposito dalla riformona.
In questi giorni si è celebrato, con una colata di retorica, il genetliaco della Convenzione ONU che – ridendo e scherzando – ha svoltato la maggiore età. La Convenzione è molto chiara nell’enfatizzare la centralità della vita indipendente. In Italia, complici anche talune posizioni del movimento, è troppo spesso stata ridotta ad un diritto riservato a quei disabili in grado di autodeterminarsi e declinata meramente in contributi per pagare l’assistente personale. A volerlo leggere con attenzione quel passaggio della Convenzione (art. 19) ha ben altra portata. Esprime in assoluto il diritto di ciascuna persona “di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione.” L’articolo prosegue: “le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione.”.
La cita eccome la segregazione e l’isolamento la Convenzione ONU.
La nostrana legge delega sulla disabilità annacqua alquanto i concetti. Rimanda e condiziona gli interventi alla redazione del salvifico progetto di vita in cui “possano essere individuati sostegni e servizi per l’abitare in autonomia e modelli di assistenza personale autogestita che supportino la vita indipendente delle persone con disabilità in età adulta, favorendone la deistituzionalizzazione e prevenendone l’istituzionalizzazione.”
La segregazione è scomparsa dal lessico. L’asse si sposta sulla possibilità di scegliere “il proprio luogo di residenza e un’adeguata soluzione abitativa, anche promuovendo il diritto alla domiciliarità delle cure e dei sostegni socio-assistenziali.”
Resta il “dove vivere”, sparisce il “con chi vivere” e tutto il resto.
La legge delega, a dire il vero prevede espressamente anche che sia disciplinata la “riconversione delle risorse attualmente destinate all’assistenza nell’ambito di istituti a favore dei servizi di supporto alla domiciliarità e alla vita indipendente.” Nella sostanza verrebbe da capire: i quattrini che risparmiamo dai ricoveri in istituto (con le sue varie denominazioni), li investiamo in interventi domiciliari. Il che, pur ancora timido, è un intento razionale e apprezzabile al netto del disturbo per alcune lobbies. Però anche questo è scomparso dal decreto legislativo che contiene la riformona e che discenda dalla legge delega. Sostanza: è ancora peggio.
Veniamo infatti a quello che esprime l’articolo dall’evocativo oggetto “Libertà di scelta sul luogo di abitazione e continuità dei sostegni”.
Attenzione alle parole! Vediamo l’incipit ché merita: “Il progetto di vita tende a favorire la libertà della persona con disabilità di scegliere dove vivere (…)”
Non si “garantisce”: si “tende a favorire”. Che vogliamo aggiungere? Il diritto del vorrei ma non posso, più che un diritto un interesse legittimo.
Ma continuiamo a leggere per capire come si attuerebbe questa pulsante tensione? “individuando appropriate soluzioni abitative e, ove richiesto, garantendo il diritto alla domiciliarità delle cure e dei sostegni socio-assistenziali (…)”. Quel “garantendo” lascia ben sperare non fosse che la frase prosegue con uno tombale distinguo: “salvo dell’impossibilità di assicurare l’intensità, in termini di appropriatezza, degli interventi o la qualità specialistica necessaria.”
Se la gravità della situazione è tanto impegnativa da non poter assicurare i necessari sostegni (non lo decide la persona) allora un bel ricovero in istituto o ambienti similari rimane la via di uscita. Oppure ti arrangi con la tua famiglia.
Forse però abbiamo frainteso e siamo eccessivi nel liquidare tutto ciò come libertà a saldi invariati. Con speranzosa fiducia leggiamo il comma successivo che inizia con il rassicurarci che per attuare quelle tendenze alla libertà “le amministrazioni competenti alla realizzazione del progetto di vita assicurano la continuità dei sostegni, interventi e prestazioni individuati.” Lo faranno – pensa un po’ – “anche in caso di modifiche del luogo di abitazione della persona con disabilità, tenendo conto della specificità del contesto.” Ma poi … “salvo il caso dell’impossibilità di assicurare, in termini di appropriatezza, l’intensità degli interventi o la qualità specialistica necessaria.”.
“Salvo il caso…” Un’altra volta! Delle previsioni della celebratissima Convenzione ONU è fatta carne di porco con l’improntitudine pure di citarla. Però la garanzia di redigere un formale progetto di vita (personale, individuale, partecipato) è assicurata. Si tratta di una gigantesca mistificazione che per essere propalata ha bisogno di complici e di silenzi.
Non possono essere queste le premesse per ripensare modelli di abitare in autonomia che non significa poter fare tutto autonomamente ma poter mantenere il controllo sulla propria vita. Non possono essere questi i presupposti per una domiciliarità inclusiva che offra supporti ma favorisca anche l’acquisizione di competenze, responsabilità e il processo di coinvolgimento sia individuale che della famiglia e della comunità; che sostenga ed eviti i sovraccarichi dei caregiver per restituire anche a loro libertà. Che rifletta contestualmente sulla transizione alla vita adulta, al “dopo di noi”… Visioni ben più ampie di cui si sente una fortissima necessità.
Questa è solo una rivisitazione della domiciliarità assistita e, per definizione, nei limiti dei bilanci, delle risorse, dei modelli disponibili nel territorio.
E su questo sarà interessante osservare quale ricaduta effettiva avrà tutta questa elaborazione concettuale nelle politiche e nei modelli delle singole regioni e con quale grado di disparità territoriale.
Nel frattempo racconteremo all’Europa di avere centrato un altro obiettivo del PNRR e alle persone di avere ripensato il sistema nel loro interesse, per la loro inclusione, per la loro libertà, per la loro autodeterminazione.
P.s.: il testo dello schema di decreto, la relazione tecnica e altri documenti sono disponili nel sito del Senato