Questa volta il Consiglio di Stato, il massimo organo della giustizia amministrativa, in altre occasioni applaudito per le sue pronunce, ha non poco irritato un’ampia platea di osservatori, famiglie, associazioni, politici. Mi associo all’irritazione, pur con molti distinguo e con qualche perplessità.
Il caso è quello di un ragazzino con disabilità per quale il PEI, il piano educativo individualizzato, ha proposto 12 ore settimanali di sostegno e 13 ore di assistenza scolastica. Il sostegno viene riconosciuto integralmente, mentre l’assistenza viene ridotta a 7 ore. Qualcuno chioserà, viste molte esperienze personali, che gli è andata pure bene, ma tant’è: non è questo il punto.
Vista quella riduzione la famiglia ricorre al TAR che le dà torto e dunque si rivolge al Consiglio di Stato.
Il vero oggetto del contendere è uno: la concessione dell’assistenza alla autonomia e alla comunicazione è un diritto incomprimibile all’inclusione scolastica delle persone con disabilità oppure è finanziariamente condizionato?
Il Consiglio di Stato conclude che quel diritto può essere compresso dalle risorse finanziarie a disposizione degli enti locali. E questo in barba ad altre sentenze della Corte Costituzionale (manco richiamate), della Corte Europea dei Diritti dell’uomo e di un po’ di TAR in ordine sparso.
Non entro nella disamina giuridica della sentenza del Consiglio: c’è chi l’ha sviscerata molto bene e in modo approfondito e dettagliato. Analisi utili, utilissimi, ma scevre – giustamente – di considerazioni politiche.
Di certo il Consiglio di Stato lungo tutta la lunga articolazione della sentenza, richiama e riprende quanto già disposto dal legislatore nel 2017: che all’assistenza all’autonomia e alla comunicazione provvedono gli enti locali “nei limiti delle risorse disponibili”.
Sta scritto nero su bianco in un celebrato decreto legislativo del 2017 (il decreto 66, peraltro integrato e corretto dal successivo decreto 96/2019). È lì, bello bello, in Gazzetta Ufficiale.
Quel decreto, tanto per ricordarlo, è uno di quelli applicativi della più generale riforma ricordata come “la Buona Scuola” e riguarda proprio l’inclusione degli alunni con disabilità.
Lascia dunque perplessi che il Ministro per le Disabilità si limiti – per ora almento – ad esprimere forte disappunto riguardo a quella sentenza e le facciano immancabile eco molte organizzazioni senza alcuna nota contrappuntistica che forse sarebbe utile, se non di stimolo, allo stesso dicastero.
Il limite di bilancio all’assistenza esisteva già da un pezzo ed era evidente. Se sussiste, come riteniamo, qualche problema di legittimità costituzionale questo c’era già nel 2017 e ancora nel 2019, ma allora forse si era troppo impegnati ad applaudire al nuovo decreto (in cui i problemi applicativi non mancano) o forse si era convinti che ne esistessero improbabili protezioni.
Fa sorridere poi la speranza che il Consiglio di Stato possa sanare lo scivolone in una futuribile adunanza generale che pronunci quindi una sentenza di altro segno. Non funziona così… L’adunanza generale non viene convocata perché lo chiede un Ministro o qualche associazione. Ha il suo iter tutt’altro che semplice, tutt’altro che prevedibile o scontato. Invocare un deus ex machina è un tantino vittimistico e soprattutto rinunciatario ad esaminare una questione assai intricata.
Si sarebbe apprezzata dal Ministro e dal Governo una risposta politica vera e non di marketing. Si sarebbe apprezzato un segnale politico anche dalle opposizioni, ma, neanche su questo, si rileva alcun sussulto. Ci si sarebbe attesi una reazione molto più articolata da parte del movimento: ancora non si intravede, salvo qualche voce.
La questione dell’assistenza all’autonomia e alla comunicazione, in realtà, è intrisa di intoppi, carenze, distorsioni, lacune antiche e attuali.
Immaginando che oggi una famiglia chieda “cosa cambia per noi dopo la sentenza del Consiglio di Stato?”, la risposta più onesta sarebbe: non cambia nulla; al massimo alcuni enti locali si sentiranno più confortati nelle loro scelte, che avevano già copertura normativa, di ridurre l’assistenza o di soddisfarne solo in parte le richieste. Ma già lo fanno da anni.
Sorgono allora una serie di considerazioni e dubbi in disordine ordine sparso.
La prima: le risorse. Supponendo che l’assistenza all’autonomia e alla comunicazione sia un diritto incomprimibile e non un interesse soggettivo finanziariamente condizionato – e mi piace idealmente pensare che sia così – servono stanziamenti certi per garantirlo. Oggi non ci sono. Lo Stato spende più di 7 miliardi per i docenti di sostegno, dipendenti del Ministero. Il numero degli insegnanti di sostegno è aumentato esponenzialmente negli ultimi 20 anni.
Al contempo per l’assistenza – competenza degli Enti Locali – l’ultimo stanziamento (decreti di riparto per il 2024) è di circa circa 224 milioni (103,7 ai comuni, 120,8 alle regioni). La destinazione alla regioni è leggermente aumentata rispetto al 2023, ma solo perché sono state aggiunte le regioni a statuto speciale e le province autonome.
Gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione (in sigla ASACOM), stando agli ultimi dati ISTAT sono circa 68.000 anch’essi aumentati esponenzialmente dal 2000 in poi.
Va da sé che il costo complessivo è molto superiore ai 224 milioni e, dunque, la spesa residua, verosimilmente quattro volte tanto, rimane a carico degli enti locali.
Al di là delle 470 amministrazioni in dissesto finanziario, cioè a rischio di default, e 257 in pre-dissesto moltissimi comuni non se la passano molto bene. Come si dice: stanno raschiando il fondo del barile. Questa la cruda realtà del Paese. Un contesto in cui in alcuni comuni l’assistenza non viene concessa, in altri solo parzialmente. Dipende dalla fortuna di vivere in un luogo piuttosto che in un altro. Un quadro plasticamente evidente nei rappporti ISTAT degli ultimi 10 anni: profonda disparità territoriale.
Tornando alle nostre vicende: se l’assistenza scolastica deve essere un livello essenziale (LEP) – qualcuno prima o poi ce lo dirà – occorre immettere proporzionali risorse nel sistema, altrimenti l’affermazione è meramente ideale (se non ideologica). Dunque è una risposta politica che va oltre l’improduttiva indignazione per la sentenza del Consiglio di Stato. Certo affermare: “come Governo cambieremo la legge” è molto più impegnativo che augurarsi provvisoriamente “confidiamo in un’adunanza generale del Consiglio di Stato”.
Seconda considerazione. Per prevedere che l’assistenza sia un LEP è razionalmente necessario stabilire con buona approssimazione quale sia il fabbisogno standard credibile. Al momento non abbiamo ancora dei dati precisi e forse nemmeno degli strumenti per stabilirlo, a meno che non si ritenga che il fabbisogno sia la somma delle ore proposte nei singoli PEI. Questo è l’assunto adottato da ISTAT – era l’unico possibile – ma vi sono alcune probabili distorsioni. Quando, in che modo, con che criteri si giunge alla proposta di quel tot ore di assistenza all’autonomia e alla comunicazione? Che cosa ci si aspetta dall’ASACOM quando se ne quantifica l’impegno nel PEI?
Qui – dobbiamo avere il coraggio propositivo di ammetterlo – c’è una voragine metodologica e le segnalazioni in tutto lo Stivale sono disarmanti.
Andiamo dagli enti locali che entrano nel merito del singolo PEI a quelli che rigettano o comprimono le ore richieste proprio per ragioni di bilancio.
Troviamo contesti in cui l’ASACOM viene richiesto, più o meno esplicitamente, per svolgere attività di assistenza materiale che non si riescono ad imporre al personale ATA e per evitare conflittualità che non si sanno gestire come dirigenti.
Rileviamo situazioni in cui l’assistenza viene considerata l’estensione del supporto pedagogico, non ideale ma per compensare un limitato (o assente) numero di ore di sostegno.
Abbiamo – di contro – fattispecie in cui, date le resistenze a ottenere una più appropriata assistenza all’autonomia, si ripiega sulla concessione dell’insegnante di sostegno (paga lo Stato) anche in assenza di esigenze didattiche e pedagogiche.
Sembra smarrito lo spirito originario di quel ruolo e di quella figura e forse anche una visione differente dell’inclusione e della corresponsabilità, favorendo invece ancora tendenze all’“isolazione”, come le definisce un caro amico pedagogista.
Già, terza considerazione: ma qual è il profilo e quali sono le mansioni dell’assistente all’autonomia e alla comunicazione? Anche qui ci sono delle responsabilità politiche. Il decreto legislativo 66/2017 (sempre quello) ha previsto una successiva norma che ne definisse appunto il profilo e che finalmente esplicitasse cosa all’ASACOM potesse essere richiesto (e magari cosa fosse di competenza di altri). E quali fossero le sue relazioni con la comunità educante.
Il decreto doveva essere emanato dopo 180 giorni. Dopo sette anni lo stiamo ancora aspettando. Nel mentre le regioni si muovono per conto proprio in modo talora scomposto talvolta con scarse garanzie. Gli assistenti per la comunicazione come devono dimostrare la loro competenza nel Braille o nella LIS? Quali competenze devono avere acquisito per relazionarsi con persone con disturbi del neurosviluppo? Quali sono i confini – auspicabilissimi – con altre figure schiettamente riabilitative?
In assenza di queste indicazioni e della loro condivisione resta tutto molto complicato, inclusa la regolarizzazione degli assistenti (ASACOM).
La quarta considerazione riguarda proprio gli ASACOM. Il loro trattamento è uno degli esempi più amari ed eclatanti di precarietà e disparità nei livelli e nelle condizioni retributive. Sono prevalentemente cooptati attraverso il ricorso a cooperative. Vengono retribuiti generalmente per lo stretto impegno orario diretto, quindi escludendo festivi, ferie, malattia dell’alunno. Ed i compensi con tutta evidenza rasentano l’ancora inesistente salario minimo. In questo scenario è impensabile confidare nella continuità nel tempo o a investimenti nella formazione. Alla prima proposta di lavoro alternativa, comprensibilmente, l’assistente molla la cooperativa, la scuola e la persona.
In Senato giace un disegno di legge (atti del Senato 236) che ne prevede la regolarizzazione. È stato depositato nel 2022, ma di recente ha subito un battuta di arresto con la congiunzione con un altro disegno di legge (atti del Senato 1141). Nella sostanza l’idea è di “statalizzare” la figura dell’assistente all’autonomia e alla comunicazione che diventerebbe dipendente del Ministero al pari degli insegnanti e del personale ATA. Qualcuno ricorderà che identica operazione fu attuata nel 2000 con i “bidelli”: circa 70.000 dipendenti migrarono alle dipendenze del Ministero.
Il disegno di legge, su cui si può discutere, è piuttosto incerto nella definizione dei costi. La questione è comunque quella delle risorse.
Al di là dei risvolti tecnici e amministrativi, dei relativi concorsi, dei tempi, rimangono almeno tre buchi: le risorse da immettere nel sistema, i profili degli ASACOM, i criteri per il loro impiego più appropriato e congruente. Oggi spesso fanno da tappabuchi, soprattutto per l’autonomia, domani non dovrebbe più essere così.
Questo scenario e le sfide che ne derivano ha necessità di una profonda analisi di sistema, di visione complessiva ma anche di onestà intellettuale capace di contemperare e valorizzare i differenti angoli prospettici senza smarrire l’obiettivo prioritario: l’inclusione le opportunità e la crescita serena delle nuove generazioni, con o senza disabilità.
Se la sentenza è l’impulso per questa rinascita dobbiamo solo ringraziare il Consiglio di Stato.
Altrimenti è un inutile polverone.