E adesso sono loro in età di pensione si ritrovano con un’amara sorpresa.
Capire dettagliatamente l’origine di questa vicenda comporta una buona conoscenza tecnica e maneggiare i meccanismi del nuovo calcolo della pensione. Quindi se ne parla poco, anche perchè è altamente imbarazzante che questo di Monti-Fornero sia stato approvato in scioltezza dal Parlamento senza tante remore. Un regalino risplendente nella sua pienezza da luglio 2013.
Passo indietro: dal primo gennaio 2012 non esiste più la pensione di anzianità.
Esistono ora la “nuova” pensione di vecchiaia e la pensione anticipata.
Per raggiungere il diritto alla pensione di vecchiaia è necessario disporre di almeno 20 anni di versamenti contributivi e aver raggiunto una determinata età. Si è partiti dal 2012 fissando quell’età prevedendo un aumento progressivo per l’adeguamento all’attesa di vita. Nel 2020 tale limite sarà per tutti (maschi e femmine, pubblici, privati e automi) fissato a 66 anni e 11 mesi.
Per frattempo, nel 2013 l’età prevista per i lavoratori (maschi) dipendenti ed autonomi è di 66 anni e tre mesi, stessa età per le lavoratrici dipendenti pubbliche. 62 e 3 mesi anni per le lavoratrici dipendenti private e infine, 63 e 9 mesi per le lavoratrici autonome.
Per fare un esempio: oggi, settembre 2013, una dipendente pubblica che abbia compiuto i 67 anni e abbia lavorato 30 anni può andare in pensione (sorvoliamo sull’importo della pensione, in questo caso).
Esiste però, in assenza dei requisiti anagrafici, la seconda opportunità: la pensione anticipata.
In questo caso le lavoratrici del settore pubblico e privato devono contare su 41 anni e 2 mesi di versamenti contributivi. I maschi lavoratori, un anno in più.
Ed arriviamo al punto: quei 42 anni e 2 mesi devono riferirsi a lavoro effettivamente prestato; eccezionalmente sono conteggiate come lavoro prestato le assenze per malattia, maternità obbligatoria (5 mesi), infortunio, servizio di leva.
Tutto il resto è fuori.
Non sono considerati come lavoro effettivamente prestato, e quindi non conteggiati come contributi utili, i permessi per assistere i parenti con disabilità (legge 104), il congedo retribuito per la medesima assistenza, il congedo per motivi di famiglia (anche se riscattato), l’astensione facoltativa post-partum fruita in attività di servizio…
Questo significa che chi ha fruito di due anni di congedo dovrà lavorare due anni in più per maturare quel diritto. Se non lo fa incorre in penalizzazioni di trattamento.
Questo significa che la made di un ragazzo con disabilità che per 10 anni ha i permessi lavorativi mensili, dovrà rimanere in servizio un anno più.
Una beffa: quello che era ipotizzato come un aiuto, alla fine della fiera vene fatto pesantemente ripagare.
Questa è l’attenzione, il supporto, l’equità riservata alle famiglie italiane, in particolare a quelle in maggiore difficoltà.
Questa è la tangibile considerazione del nostro Legislatore per il lavoro di cura assicurato da qualche milionata di concittadini fra mille difficoltà e altrettante rinunce.
Solo un intervento normativo potrà sanare questa porcata, sempre che i Parlamentari non siano occupati nell’ennesima seduta di Giunta, o ad arrampicarsi sui tetti di Montecitorio, o a porre veti incrociati o a berciare nei talk show televisivi. (Carlo Giacobini)
Fonti: Legge dicembre 2011 n. 214, art. 24; legge 24 febbraio 2012, n. 14.