La notizia è rimbalzata, più che grazie ai TG in prima serata, attraverso il volonteroso tam tam telematico delle associazioni. È stata anche ripresa dall’ANSA ma non ha poi avuto il rilievo che forse meritava.
È la storia di una ragazzina che, con la madre, deve raggiungere quello che i sardi chiamano “il continente”. L’aereo la porterà a Milano per una visita di controllo presso un centro ad alta specializzazione. Ma poiché quella ragazzina è disabile qualcosa ostacolerà i suoi programmi non propriamente di svago. La compagnia aerea, Airone, ha stabilito con una propria disposizione che il primo volo del mattino, da Alghero a Milano, non può imbarcare “animali, carichi speciali e disabili”, e questo perché le operazioni di discesa e di successiva nuova partenza siano il più brevi possibili. Madre e figlia devono così partire con il volo successivo.
Non ci dilunghiamo sui fatti: saranno oggetto di scuse da parte di Airone, motivo di interrogazioni parlamentari, causa di successive rivendicazioni.
Rimane il dubbio che ci sia qualcosa di penalmente, o magari solo civilmente, rilevante, ma anche questo episodio rimarrà uno dei tanti fatti di cronaca archiviati all’asettica voce “disagi per i clienti con necessità speciali”.
In una sconsolante prospettiva storica, il miglioramento complessivo dei servizi di trasporto (e non solo) passa attraverso centinaia di episodi di ordinaria esclusione che umiliano chi li subisce, creano una “rogna” per chi li deve gestire e fanno arricciare il naso allo spettatore più o meno involontario. Sembra quasi un rito di passaggio: l’utente (o il cliente) più debole deve attraversare una serie di prove prima di raggiungere il traguardo, prove che servono a dimostrargli e ricordargli quanto sia “fuori standard”, quanto non sia conforme alle medie, quanto sia difficile accontentare la sua voglia di muoversi, giustificata solo in parte agli occhi di alcuni.
Solo dopo queste prove si approda ad una prassi che gli consente di utilizzare un servizio come tutti gli altri, traguardo che viene presentato come la dimostrazione di elasticità dell’organizzazione, se non come una conquista civile. Mai come un atto dovuto o già imposto dalla legge. Il copione lo conosciamo a memoria: ha origini lontane e viene replicato fin troppo spesso.
È la logica che è perversa ma che, decennio dopo decennio, continuiamo a sperare possa mutare: si progetta (un servizio, un prodotto, un edificio, un percorso educativo, un luogo di lavoro) per l’utente medio, quello che rientra appunto negli standard e che è agevole inquadrare, controllare, accontentare, per quella persona che è facile definire e ingabbiare all’interno di scientifiche ed efficaci procedure di lavoro e di mercato. Il resto è caso limite, da gestire nell’eccezionalità. Solo quando le “eccezioni” divengono troppe, troppo conflittuali, di eccessivo danno per l’immagine del gestore si corre ai ripari, non già ripensando alle modalità di erogazione del servizio ma piuttosto mettendoci una toppa. Le soluzioni per le persone disabili sono, in questi casi, sempre giustapposte, rattoppate appunto, non fanno parte di una più complessiva logica organizzativa.
Ci penseranno poi gli addetti alla comunicazione ad enfatizzare il rinnovato impegno nei confronti degli utenti, anziani o disabili che siano. Ed in effetti si tenta di compensare molte delle lacune proprio con gli effetti speciali, con il fumo negli occhi. Sia chiaro: è corretto e giusto informare sull’esistenza di un nuovo servizio, di una nuova opportunità. Ciò che infastidisce è che quell’informazione venga talvolta usata per mascherare ritardi e lacune, se non addirittura per esaltare l’azienda per una condotta cui sarebbe comunque tenuta per legge.
Ci spieghiamo meglio. In Italia esistono norme antidiscriminatorie piuttosto chiare. Per citarne solo alcune: i locali aperti al pubblico devono essere accessibili, i servizi di trasporto devono essere fruibili da tutti, i centri commerciali, assieme a cinema e luoghi di intrattenimento devono garantire a tutti la possibilità di utilizzarli. I bancomat devono essere raggiungibili, per legge, anche alle persone su sedia a ruote e, per quanto possa apparire strano, queste ultime devono poter usare anche il normale servizio di taxi.
Navi, aerei ed aeroporti, metropolitane e treni devono essere realizzati anche a misura di disabile, tutti i disabili, non solo quelli stereotipati in quell’anodino pittogramma che troviamo appiccicato nelle porte dei migliori cessi. Non vedenti, sordomuti, persone con disabilità intellettiva … Addirittura i siti internet devono essere utilizzabili da tutti. Sembra che il Legislatore abbia già pensato a tutto, abbia, lungimirante, già preconizzato le future difficoltà e indicato i criteri per evitarle.
Eppure, e ne abbiamo riprove quotidiane, non è così. Perché questo accade?
Perché il Legislatore è stato tanto preciso da indicare standard e obblighi, ma si è dimenticato di attribuire in modo chiaro le responsabilità, le modalità di controllo e le forme di sanzione per chi non rispetta le norme in questione.
Qualcuno penserà che la nostra è una logica repressiva che non porta a nulla, ché non è con la sanzione, ma con il convincimento e la promozione, che certe logiche entrano nelle teste e nell’operare comune. Non è così.
L’Italia ha recepito, con il famoso decreto legislativo 626, un insieme di direttive comunitarie relative alla sicurezza sul lavoro. Il 626, pur con difficoltà applicative, è stato accolto ed applicato dalla maggioranza delle aziende. Ciò non è avvenuto per una sensibilità diffusa verso i rischi di infortuni, ma perché è stato previsto ed adottato un robusto apparato di controllo e sanzionatorio.
Perché le disposizioni che riguardano le persone con disabilità non prevedono controlli e sanzioni? Possiamo solo azzardare l’ipotesi che questa lacuna derivi da una compassionevole cultura assistenzialistica, secondo cui qualsiasi azione a favore dei più deboli è prioritariamente un gesto di carità verso una persona sfortunata, e non invece atto dovuto in quanto quella persona è un cittadino, un cliente, un utente con una propria dignità e con proprie esigenze. È una cultura che si evidenzia poi nella costruzione dei luoghi comuni, negli stereotipi, nelle semplificazioni. Qualsiasi nuovo servizio attivato per i disabili sarà presentato come un’opportunità in più per questi, come una sensibile attenzione dell’azienda e non invece come una nuova flessibilità dell’azienda stessa rispetto ad una gamma più ampia di clienti. O di cittadini, poiché le lacune (si legga pure “colpe”) interessano ampiamente anche le pubbliche amministrazioni.
Il panorama non è dei più rosei, ma non può certo essere modificato, come qualcuno vorrebbe lasciare intendere, costituendo qualche nuovo “osservatorio”. Gli osservatori devono aspirare ad altro, sempre che non obbediscano a mire meramente clientelari o elettoralistiche o che non servano a garantire uno scranno a qualche presidente di associazione.
Ciò che è oggi davvero necessario è individuare in modo chiaro le responsabilità di controllo e sanzione. Se le pubbliche amministrazioni e gli organi di controllo non riescono a garantire tutto ciò, forse siamo giunti al punto di dover ipotizzare la costituzione di un’Authority, di un Garante per le disabilità. È una scelta di retroguardia, forse, ma i diritti civili non possono attendere che le menti siano illuminate dallo Spirito Santo. (Carlo Giacobini)