È la prima pietanza di cui abbia memoria. Meglio, è la prima esperienza culinaria di cui mi ricordi in maniera nitida. Avrò avuto meno di 9 anni quando ho iniziato a praticarla. E non ho più smesso. Dell’ingrediente principe era custode mia nonna a bottega, un minuscolo negozio di alimentari in cui si trovava ben poco ma loro non mancavano mai. Quella scatola di latta con la scritta in spagnolo era un piacere vederla aprire con il vecchio apriscatole a manopola mezzo arrugginito che risaliva a Dio sa quando. Usciva il sale ancora chiaro e un po’ di liquido, ma prima ancora si spandeva un profumo causa di repentina salivazione. Le sarde spagnole sotto sale.
Il primo strato di sale lo rimuoveva nonna con le dita ossute e aiutandosi con una spatolina di legno “sono mature” sentenziava “sono belle mature! Oh sì.”. Il sale e il tempo avevano fatto la loro parte, senza eccessi e senza ritardi.
E tosto ne estraeva il primo stato, sarda dopo sarda, forzando lieve e tentando di lasciare il sale residuo nel vaso. Lentamente: nonna era la lentezza fatta persona. Poi stendeva nuovamente il sale, rimetteva in coperchio in sede e lo fermava con il ciotolo del Piave che stava in negozio dalla notte dei tempi.
Dodici sarde da buttare sulla bilancia, 250 grammi, ma prima nonna si puliva le mani con lo straccio. Io friggevo per questi tempi rallentati ma finalmente il cartoccio era mio.
Avevamo la fontana nel cortile. Ce l’abbiamo ancora ma non è più quella. Mi ero già preparato il vecchio scolapasta di alluminio che mi serviva per il primo lavaggio: togliere il grosso del sale. Seconda operazione: rimuove quel poco di budellame dal ventre, le squame e deliscare con cura. Se le sarde non sono troppo mature, si sa, si procede velocemente. In caso contrario si rompono facilmente. Lische da una parte, buono dall’altra per un’ultima passata sotto l’acqua. E si continuo a ipersalivare.
E poi su in casa a battere le cipolle bianche, abbondanti, nel vecchio tagliere. Fin da piccolo, in casa, mi lasciavano maneggiare i coltelli secondo il principio pedagogico: “se non ti fai male non comprendi il pericolo”. O anche: “sveja bauchi, scanta macachi” a significare, più o meno, lo stesso concetto.
Alla cipolla si aggiungono le sarde e si batte, si batte, si batte. Ma non troppo. Deve uscire sì una poltiglia, ma devono anche rimanere un po’ consistenti le cipolle.
Il bolo è pronto. Le dita continueranno a puzzarmi per 24 ore.
Olio, olio, olio. Ma mica di oliva, meglio – per quest’uso e nella rigorosa tradizione – di semi di girasole. Un tegame basso, dentro il bolo di sarde e cipolla. L’olio deve essere ancora freddo. Adesso si può accendere la fiamma, una fiamma gentile, non aggressiva ché la salsa per i bigoli deve sobbollire delicatamente, mai in modo isterico e mai troppo a lungo.
Dopo qualche minuto, pochi, si può aggiungere l’altro ingrediente storico: il concentrato di pomodoro. Chi pensa che il pomodoro fresco potrebbe essere preferibile ignora cosa siano i veri bigoli in salsa e commette blasfemia.
Ancora ricordo il gesto antico. Il lungo verme rosso che esce dal tubo di concentrato e si riversa nel mestolo di alluminio. Viene allungato con un po’ acqua, stemperato con un forchetta e versato nella pentola. Colora il tutto e in particolare tinge l’olio che vira subito al rosso minaccioso per qualsiasi camicia. Un trucco che ha restituito a generazioni di poveri l’illusione che la pasta fosse più condita di quello che era. Pochi minuti e l’acqua si asciuga. La salsa è pronta. Dopo decenni la soddisfazione e le aspettative sono le stesse. Tocca alla pasta e qui si apre un filone di pensiero e di considerazioni. E anche di percorsi umani.
Quand’ero bimbo i bigoli erano quelli mori. Spaghetti scuri ché la salsa era la morte loro, nel pieno rispetto, ancor una volta, della tradizione veneta. Col tempo è diventato sempre più difficile trovare bigoli mori di qualità checché ne dicano alcuni produttori. E niente: la salsa non aderisce così bene.
Meglio allora uno spaghetto grosso, di grano duro e magari trafilato con cura. L’esito è garantito
Un bel tòcco di pane con tanta mollica è immancabile per la finale scarpetta a ripulire olio e residui e a riprova del sincero gradimento. Oggi nonna avrebbe quasi 115 anni, ma ancora gradirebbe. Per me, nel frattempo, non è cambiato nulla. Almeno con i bigoli in salsa. (Carlo Giacobini)