Sono trascorsi meno di due anni.
L’istanza esplose tonante gonfiata da quell’indignazione unanime e comprensibile. Quei filmati con i loghi dell’Arma o della Polizia di Stato, ampiamente diffusi da palinsesti e social, erano effettivamente rivoltanti, raccapriccianti anche per gli animi più duri.
Bimbi presi a ceffoni, anziani malmenati e umiliati, persone con disabilità costrette alle situazioni più degradanti: immagini shock, accompagnate da minuziosi dettagli in cronaca, raccolte con scrupolo nel corso di indagini che ebbero, o avranno, un esito penale in giudizio.
La politica, quella che sovente nel montare di questi sentimenti ricerca consenso e adesione, non si sottrasse dall’indicare il rimedio spacciandolo, come spesso accade, quale risolutivo, definitivo, non rinviabile: la videosorveglianza. Obbligatorie le telecamere a circuito chiuso in tutti gli asili nido, nelle scuole per l’infanzia, nelle strutture per persone anziane o con disabilità. Avrebbero finalmente impedito lo sciagurato ripetersi di tanti abusi, violenze, molestie.
La foga e l’entusiasmo, sostenuti da una infervorata canea di giustizieri, annebbiò forse la necessaria lucidità.
Sminuite le eccezioni sulla privacy delle vittime, allontanati con sdegno i dilemmi sui diritti dei lavoratori, minimizzate le riserve di natura economica, nessun ostacolo parve frapporsi alla nuova acclamata norma.
Sembrò, invero e timidamente, che l’aspetto pratico, la fattibilità come la chiamano i tecnici, potesse far sorgere qualche dubbio. Per assicurare un’occhiuta quanto puntuale e tempestiva vigilanza, ogni ambiente, ogni stanza, camera, corridoio e bagno avrebbe dovuto essere presidiato non da un solo occhio elettronico, ma da telecamere su varie angolature.
Ciò che non poterono questi esercizi di titubanza contro la trabordante ondata repressiva, poté la scadenza della legislatura che rimandò deputati e senatori nei loro collegi (elettorali che ben si intende) e archiviò le loro proposte, serie o bislacche che fossero
Ma il boccone era troppo ghiotto in termini di consenso, era troppo appetibile vellicando esso le sensibilità e gli istinti di tanta parte dell’elettorato.
E infatti due proposte di legge con i medesimi precendenti intenti sono state lestamente ripresentate all’avvio della nuova legislatura e, giusto in queste settimane, sono all’esame delle Commissioni (due) parlamentari di Montecitorio.
L’àmbito è sempre quello, o quasi: asili nido, scuole d’infanzia, strutture socio-assistenziali (strano… non quelle sanitarie o socio-sanitarie) per anziani, disabili e minori in situazione di disagio.
Ma questa volta, al di là della narrazione propagandistica, l’istallazione di videosorveglianza non sarebbe più un obbligo, ma una possibilità concessa ai gestori di quelle strutture. Ben inteso, ora i sistemi dovranno prevedere immagini criptate e accessibili sono dall’autorità giudiziaria in caso di denuncia (sic!). Non potranno essere visionate da nessuno all’interno della struttura.
E lo Stato, generoso, predispone anche un Fondo per sostenere le spese non marginali che dovranno essere sostenute dai volonterosi responsabili di ciascuna struttura (mentre li lesina a chi tenta di attuare progetti creidibili sulle persone).
Non è tutto: le nuove, si fa per dire, proposte pongono maggiormente l’accento sulla valutazione, in pre-assunzione e dopo, dell’idoneità psichica degli operatori.
Sintesi: foga comprensibilmente repressiva largamente depotenziata di fronte alle evidenze. E comunque sapientemente cavalcata.
Ma… Ma si è persa ancora una volta l’occasione per una riflessione ben più profonda e necessaria che non la compensazione della rabbia cieca e repentina, che non le necessità ansiolitiche, che non, forse, il contenimento di molti sensi di colpa malsopiti.
Latita, ancora, la consapevolezza sulla qualità dei contesti in cui quelle violenze maturano, sull’organizzazione e sulla gestione di quelle strutture, sull’esistenza e le opportunità offerte alle persone che le frequentano. Latita o viene confinata alla responsabilità del singolo operatore, inidoneo psichicamente. La teoria della mela marcia da individuare ed espellere, assolutoria prevale semplicisticamente e subdolamente.
Appariamo pervasi da una rimozione prevalente: la segregazione ancora esiste ed è del tutto simile, per logiche e spirito, ai manicomi che Basaglia aborriva e noi con lui.
Chi vive in talune strutture troppo spesso è privato della libertà di scelta, è obbligato a rispettare imposizioni che ne comprimono la possibilità di espressione, di relazione, di sviluppo della propria personalità, di conservazione o di maturazione dell’autonomia personale. Decidono altri, senza coinvolgerlo, cosa può fare, quando, come, dove e con chi.
Subisce egli una violenza primigenia gravida e partoriente cento, mille altre come quelle, parzialissime rispetto al fenomeno, che freddamente sono state filmate e documentate.
Questa violenza si consumano fra mura non trasparenti alla comunità, al territorio, alla famiglia. Sempre che questi vogliano davvero vedere o non preferiscano invece, per la propria serenità o per il proprio agio, confidare che sia quella la soluzione migliore. O comunque l’unica dove porre i nostri genitori, i nostri fratelli, i nostri figli. O noi stessi.
Si praticano quelle deprivazioni in strutture che hanno ottenuto, senza particolari ostacoli, accreditamenti, convenzioni e spesso anche l’ammirata riconoscenza in quanto “luoghi speciali che si prendono cura delle persone disagiate e fragili”.
Violenze eppure evidenti. Palesi, grevi e quotidiane. Pervasive.
Nessuna videocamera riuscirà a catturare tutto questo. Mai.
Solo occhi connessi a menti rispettose dell’incomprimibile dignità delle persone e della loro libertà, riusciranno a riconoscere le radici e le ragioni di quelle violenze e a ricercarne operosamente i congruenti rimedi.